Best Practice: sistema di drenaggio toracico

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SISTEMA DI DRENAGGIO TORACICO

Sinossi a cura di Cagnazzo Roberto

Il normale meccanismo della respirazione opera in base al principio della pressione negativa nella cavità toracica, pressione inferiore a quella atmosferica, che determina durante l’inspirazione, lo spostamento dell’aria verso i polmoni.

Tale pressione è variabile rispetto agli atti respiratori e raggiunge la sua massima negatività durante una inspirazione forzata (-25 -50 cm.H2O), mentre può divenire positiva durante un’espirazione forzata.

In condizioni basali si aggira normalmente intorno ai -2 -8 cm.H2O.

Il polmone è rivestito da un foglietto pleurico viscerale e da un foglietto pleurico definito parietale che entra in contatto con la parete toracica.

cavo pleuricoTra la pleura viscerale e la pleura parietale è presente uno spazio detto virtuale, che contiene circa 10-15 ml di liquido che funge da lubrificante che ha il compito di eliminare l’attrito tra i foglietti pleurici stessi.

Se tra essi e per motivi particolari (traumi, malattie oncologiche, infettive, cause iatrogene, ecc.) si vanno a localizzare sostanze differenti rispetto ai pochi ml di liquido pleurico sopra descritto, la cavità da virtuale diventa reale generando le cosiddette “Sindromi da occupazione del cavo pleurico” come può avvenire per esempio in particolari condizioni patologiche come lo pneumotorace, l’emotorace, il chilotorace, il versamento pleurico, l’empiema o nel caso di un intervento chirurgico a livello polmonare.

L’accumulo di tali sostanze (aria, sangue, versamento, pus,  chilo, ecc.) o quando per qualsiasi ragione il torace viene aperto, viene meno la pressione negativa all’interno dello spazio intrapleurico e il polmone si sgonfia, si stacca dalla parete toracica, si collassa, raggiungendo il minimo volume possibile.

Un polmone collassato, non sarà in grado di ventilare in maniera corretta con le ovvie ripercussioni negative per ciò che riguarda la dinamica respiratoria.

pnxIn questi casi la priorità sarà quella di portare all’esterno tutte quelle sostanze che nello spazio pleurico non devono essere presenti, in modo da ripristinare la pressione negativa intratoracica, condizione indispensabile per la riespansione del polmone.

Da qui l’importanza del sistema di drenaggio toracico, ovvero quel sistema costituito da un tubo che sarà collocato in ambiente endopleurico e che verrà raccordato ad un sistema di raccolta chiuso e/o aspirazione.

 

Sistema di drenaggio toracico

Per sistema di drenaggio toracico intendiamo un tubo di drenaggio che sarà collocato in ambiente intrapleurico che verrà poi connesso ad un sistema di raccolta.

Per definizione un drenaggio è un presidio atto ad eliminare liquidi generalmente patologici da cavità naturali o neoformate.

In chirurgia toracica il drenaggio toracico è un presidio atto ad eliminare qualsiasi eventuale accumulo di materiale biologico all’interno dello spazio pleurico, permettendo la riespansione polmonare e gli scambi gassosi.

 

Le indicazioni al posizionamento del drenaggio toracico a scopo evacuativo come già detto in precedenza sono:

  • PNX spontaneo o secondario (traumatico, iatrogeno) dovuto alla presenza di aria tra la pleura viscerale e quella parietale
  • Emotorace (da trauma, post operatorio) per accumulo di sangue nello spazio pleurico
  • Empiema pleurico o piotorace per raccolta purulenta sostenuta da flora batterica
  • Versamento pleurico
  • Controllo della cavità dopo intervento di chirurgia toracica

Il tubo di drenaggio toracico è unito mediante un raccordo particolare, ad un sistema di raccolta, dotato di un meccanismo valvolare unidirezionale, connesso il più delle volte ad un sistema di aspirazione.
I cateteri toracici più comunemente usati sono rappresentati dal:

trocar– TROCAR, catetere armato e non, con tre quarti metallico, costituito da  materiale plastico (P.V.C.), trasparente, termosensibile (cioè dotato di plasticità che aumenta alla temperatura corporea), lungo da 25 a 40 cm a seconda del calibro, con indicatori di profondità di 5 cm nella parte terminale del tubo, con due fenestrature in prossimità della punta ed una stria radiopaca per facilitare il riscontro radiologico. Può essere monolume o a doppio lume per eseguire lavaggi o per introdurre farmaci intrapleurici.

 

pigtail    – PIGTAIL, catetere di piccolo calibro che assume una forma particolare definita a coda di maiale. Ha il vantaggio di essere poco traumatico e di facile gestione al                 domicilio nonché di consentire l’introduzione di  farmaci. Essendo molto piccolo come calibro, può facilmente ostruirsi.

 

 

Ovviamente l’utilizzo dell’uno o dell’altro sistema dipende da quello che è il materiale da drenare: se il problema clinico è uno PNX si può utilizzare un catetere di calibro più piccolo, al contrario per raccogliere liquidi può essere necessario un catetere di calibro più grosso.

Nel primo caso il tubo sarà inserito nella porzione antero-superiore del torace a livello del 2°/3° spazio intercostale sulla linea emiclaveare, poiché l’aria tende a salire nella cavità pleurica. Nel secondo caso sarà inserito più in basso, a livello del 5°/6° spazio intercostale sulla linea ascellare media poiché i liquidi tendono a stazionare verso il basso.

 

La peculiarità del polmone come detto in precedenza, è che all’interno dello spazio pleurico è presente una pressione inferiore a quella atmosferica. Per tale motivo non è consentito di connettere al tubo di drenaggio un sistema di raccolta qualsiasi come potrebbe succedere per un drenaggio collocato in addome dove vi è invece una pressione positiva. Pertanto al tubo endopleurico sarà collegato un particolare sistema di raccolta chiuso che deve garantire l’unidirezionalità dell’intero sistema in modo che aria e liquidi una volta drenati nel sistema di raccolta, non ritornino nuovamente nello spazio pleurico.

 

Uno dei sistemi di raccolta più conosciuti è dato dalla bottiglia di Bulau che prende il nome dal medico che alla fine del 1800 descrisse per primo il “drenaggio per sifonamento per empiema pleurico”.

Ho sempre ritenuto che il principale vantaggio del drenaggio-sifone sia di ridurre la pressione endopleurica, favorendo pertanto la riespansione polmonare”.

Gotthard Bulau

Nel drenaggio a bottiglia è presente una  camera di raccolta fluidi ed una camera contenente la valvola ad acqua la quale garantisce l’unidirezionalità del sistema di raccolta.

Al suo interno vi è un’asticella la cui estremità distale deve rimanere immersa nella valvola, mentre l’estremità prossimale deve essere connessa al tubo  endopleurico.

L’aria dallo spazio pleurico viene veicolato per gravità nella bottiglia, nello specifico nella valvola ad acqua e da qui  per gorgogliamento nell’atmosfera attraverso l’apposito sfiato.

La stessa cosa accade per  i liquidi che invece stazioneranno nella camera di raccolta fluidi.

 

valvolaOltre alla bottiglia può essere utilizzata anche la valvola di Heimlich che rappresenta il più semplice dispositivo antireflusso intrapleurico.

Altro non è che una valvola unidirezionale che permette di connettere al tubo endopleurico un semplice sacchetto di raccolta. Tale valvola detta anche a dito di guanto, consente durante l’espirazione il passaggio di aria e di eventuali secrezioni verso il sacchetto, mentre in fase inspiratoria si chiude impedendone il ritorno nello spazio pleurico.

La valvola di Heimlich offre il vantaggio di permettere una più semplice deambulazione dell’assistito nonché di poter essere facilmente gestita al domicilio tanto da consentire la dimissione del paziente con il drenaggio in situ.

 

Abbiamo per finire, la possibilità di collegare il tubo endopleurico ad un sistema compatto chiuso con sistema di aspirazione.

Il principio di funzionamento di tale presidio è quello delle tre bottiglie di boulau ovvero viene sempre garantita la unidirezionalità, con il vantaggio del collegamento ad una fonte di aspirazione al vuoto in modo da consentire una più rapida eliminazione delle sostanze da drenare e quindi in modo da avere una più veloce riespansione del polmone.

Tali sistemi sono costituiti da tre camere comunicanti tra loro. Nello specifico abbiamo:

  • camera di raccolta fluidi dove vengono veicolati i liquidi drenati
  • camera della valvola ad acqua che funge da valvola unidirezionale permettendo l’uscita dell’aria dallo spazio pleurico e l’osservazione del grado di perdita d’aria
  • camera del controllo della aspirazione che permette di collegare il sistema di raccolta al sistema di vuoto centralizzato impostando una pressione. negativa variabile.

Rispetto a quest’ultima camera possiamo avere sistemi con valvola di aspirazione a secco in cui la forza aspirante viene regolata attraverso una valvola meccanica e sistemi di aspirazione ad acqua in cui invece viene regolata in base a quanta acqua sterile vado ad inserire nella camera stessa. L’aggiunta di acqua sterile determina l’aumento dell’intensità di aspirazione.

aspirazione meccanica a seccoaspirazionead acqua

 

 

 

 

 

 

Gestione del sistema di drenaggio toracico

Il sistema di drenaggio toracico ha bisogno di un’attenta gestione, condizione indispensabile per il corretto funzionamento.

Per ottenere un buon management del presidio, sintetizziamo quanto presente in letteratura rispetto la sua corretta gestione per ciò  che riguarda la:

  • Medicazione
  • Il tubo toracico
  • Il sistema di raccolta
  • Le complicanze e le disconnessioni accidentali
  • La rimozione del tubo

 

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Case Management: il case finding

Case management process: L’individuazione del caso. Il case finding

case findingdi Jose Fernandez, Bleddyn Davies Pssru/London School of Economics
La traduzione dall’inglese è stata svolta da Chiara Pandolfini (Bacherlor of Arts) e Lorenzo Marco Rossi (Ingegnere).
Adattamento e sinossi a cura di Bascelli Emanuele

Il case finding è l’identificazione e la presa in carico di coloro i quali avrebbero maggior beneficio dal case management. Le caratteristiche che permettono di beneficiare maggiormente dal case management includono:

  1. ampia diversificazione tra i casi;
  2. instabilità e variabilità nelle condizioni;
  3. necessità di diversi tipi di contributi (input) forniti da diversi enti o da settori differenti di uno stesso ente;
  4. la necessità di compiere interventi assistenziali in momenti nei quali non c’è solitamente disponibilità di servizi.

 

Il case finding spesso conduce a un processo trasparente e funzionale che seleziona e ordina i casi a seconda delle necessità e che, in sintesi, possono essere:

  1. informazione o invio a un altro servizio;
  2. offerta continua “semplice” di prestazioni di un certo tipo;
  3. impegno intensivo da parte del team di case management.

 

Aspetti che influiscono al successo del case finding

Il successo del processo di case finding possono essere:

  1. se il ruolo del team di case management nel percorso assistenziale ha un posto dominante e che gli permetta di intervenire sui casi nel momento opportuno;
  2. la comunicazione chiara e trasparente di tutte le specifiche analisi che possono rendere i casi appropriati;
  3. il riconoscimento da parte di altri enti o reti di riferimento, della legittimità nonchè della competenza dei case manager del team a cui fanno capo, e dei potenziali benefici del loro intervento;
  4. se vengono compiuti ulteriori sforzi per reclutare individui difficili da aiutare.

 

Sin dal principio, il team di case management (perchè si deve sempre pensare ad un team di case management e non al singolo case manager) richiede un costante rapporto di condivisione con i servizi territoriali, nonchè un forte sostegno da parte delle agenzie assisteziali e clincihe con cui è in contatto. Questo aiuta ad avere un effettivo controllo sulle diverse risorse assistenziali.

Inoltre è utile dedicare diverso tempo a comunicare la natura dei casi ai diversi servizi e convincerli dell’utilità del case management prima che inizi la ricerca dei casi. I nuovi team di case management devono essere attenti de, sopsrattutto a non accettare casi non adeguati se a monte non vi sia una forma di valutazione del singolo/i casi su cui dovranno operare.

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Knowledge based management

I sistemi di retribuzione basati sulle competenze

Sinossi a cura di Bascelli Emanuele

payKnowledge Based è un sistema di retribuzione connessa alla valutazione delle competenze dei singoli individui attraverso l’utilizzo di sistemi tradizionali di job evaluation.

La retribuzione basata sulle competenze ha l’obiettivo di incentivare il personale ad:

  • implementare il numero e il tipo di competenze, sia quelle che definiamo core, sia a quelle principali e correlate al proprio ruolo professionale. 
  • Sviluppo e miglioramento delle stesse competenze e del grado di dominio delle proprie nell’ambito professionale.

 

In questo modo si vengono a premiare i percorsi di sviluppo (esempio PDTA) intrapresi e successivamente valutati secondo gli obiettivi di risultato con esiti sensibili (outcome).

Questo modello gestionale per competenze fornisce per ogni posizione organizzativa le competenze richieste e le confronta con quelle esistenti nelle persone; integrandosi alla valutazione del potenziale e a quella delle prestazioni, fornisce tutte le informazioni per impostare i piani di carriera e di sostituzione (in particolare delle posizioni critiche). Il modello delle competenze diventa quindi il fulcro attorno a cui ruotano tutte le metodologie e gli strumenti di gestione delle persone, dalla selezione alla compensation.

Pay for competence

I sistemi pay for competence partono dal presupposto di remunerare non tanto “il ruolo” che un determinato dipendente svolge, quanto le “competenze. Ciò significa identificare a priori le competenze necessarie allo svolgimento di determinati ruoli e collegare ad esse il sistema incentivante.

In generale vengono previste delle schede di valutazione, associate al singolo ruolo (o ad una famiglia professionale) in cui vengono codificati i comportamenti (o le competenze) che l’organizzazione ritiene strategici per il ruolo stesso. Ad un punteggio ottenuto in fase di valutazione viene associata una determinata quota di incentivazione.

Questo sistema richiede di costruire un’adeguata “cultura della valutazione” in azienda, molto complessa e difficile da apprezzare in determinate culture professionali, partendo proprio da uno stretto coinvolgimento sensibilizzazione dei capi. Il sistema che spinge il play for competence non si autofinanzia, in quanto un miglioramento delle competenze o dei comportamenti non si riflette automaticamente sui risultati aziendali.

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Il modello Hofstede

Il modello interpretativo delle diversità culturali

sinossi di Bascelli Emanuele

hofstede-modelGerard Hendrik Hofstede (Haarlem, 5 ottobre 1928) è un antropologo e psicologo olandese. Noto per essere un influente ricercatore nell’ambito degli studi delle organizzazioni e, più precisamente di organizzazioni culturali, in particolare dell’economia culturale e del management. È uno dei pionieri nella ricerca incrociata di gruppi culturali e organizzazioni e ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppare una struttura per la valutazione e differenziazione di culture nazionali e organizzazioni culturali. I suoi studi dimostrano che ci sono gruppi culturali nazionali e regionali che influenzano il comportamento di società e organizzazioni.

Uno dei modelli più utilizzati per comprendere se la cultura influenzi le organizzazioni è quello proprio proposto da Hofstede.

Un modello che traccia il profilo della personalità di una cultura su cinque diverse dimensioni, che sono i costituenti degli atteggiamenti delle persone, dei comportamenti e delle pratiche organizzative e sociali. Probabilmente è uno dei pochissimi modelli che esplora le aree di influenza culturale che usi un approccio statistico basato su una mole vasta di dati, ed è riconosciuto a livello internazionale come punto di riferimento per chiunque si avvicini a temi in cui le differenze culturali entrano in gioco.

Il modello a cinque dimensioni sono:

  1. avversione all’incertezza;
  2. distanza di potere;
  3. individualismo e collettivismo;
  4. mascolinità e femminilità
  5. schemi mentali orientati al lungo o breve periodo.

 

Dalla conoscenza di queste diverse dimensioni, che tra loro si “mescolano” in Un unico modello la propria cultura, Un metodo che anche chi agisce su gruppi più o meno ampi di professionisti potrebbe permettergli di trarre ulteriori ed è utili indicazioni sui diversi modi di agire e interagire all’interno di una cultura organizzativa.

per approfondimenti The hofstede centre

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Intervento malriuscito

Intervento malriuscito: pagano tutor e specializzando

tratto da Il Sole 24 ore Sanità, Sentenze. di Paola Ferrari 25 marzo 2016.

avvocatosanitario

È connotato da colpa grave e costituisce danno erariale e disciplinare il comportamento del tutor della clinica universitaria che deleghi a eseguire un intervento un medico frequentatore o specializzando privo del titolo, anche se con competenze adeguate. Questa è l’opinione dei giudici della sezione Toscana della Corte dei conti espressa nella sentenza n. 58/2016 del 9 marzo.

Connotato da colpa grave e costituisce danno erariale e disciplinare il comportamento del tutor della clinica universitaria che deleghi a eseguire un intervento un medico frequentatore o specializzando privo del titolo, anche se con competenze adeguate. Connotato da colpa grave e costituisce danno erariale e disciplinare il comportamento del tutor della clinica universitaria che deleghi a eseguire un intervento un medico frequentatore o specializzando privo del titolo, anche se con competenze adeguate. sentenza n. 58/2016
Il Procuratore aveva contestato al tutor e al medico dottorando, che avevano eseguito l’intervento, un danno arrecato all’ente quantificato in complessivi euro 492.996.

Negligenze e incompetenze

La Corte dei conti, valutata la situazione, ha accolto solo parzialmente la domanda considerando il fatto come grave negligenza che aveva determinato la decisione dell’azienda sanitaria universitaria di giungere a un accordo con i parenti della defunta, ma in considerazione della concorrenza causale degli altri aspetti concomitanti ravvisati nella gestione complessiva dell’azienda che nel tempo aveva sempre tollerato comportamenti simili, la Corte ha ritenuto di applicare il potere riduttivo, condannando il dottorando al risarcimento di euro 20mila e di euro 45mila a carico del tutor.

Negligenze e incompetenze

Secondo l’accusa, la paziente era deceduta in seguito alle complicanze di un intervento di “ernia discale lombare”, la quale aveva delegato come primo operatore un medico che non solo aveva malamente eseguito l’intervento, ma addirittura non possedeva alcun titolo per la sua esecuzione, atteso che lo stesso era un mero frequentatore, presso la clinica universitaria, di un dottorato triennale di ricerca in patologia vascolare tratto testa-collo, diversa rispetto a quella specifica per l’intervento eseguito.

In sede di primi accertamenti, la Direzione aziendale aveva appurato che il tutor aveva autorizzato il dottorando sulla base della convinzione che gli fosse utile «una conoscenza e formazione teorica e pratica delle patologie di tutta la colonna vertebrale».

Il medico inoltre risultava adeguato dal momento che aveva già in curriculum cinque anni di specializzazione in neurochirurgia e tre di dottorato, in ragione dei quali aveva già effettuato «da solo o con l’affiancamento di specializzandi e/o di professori associati della struttura ben 374 interventi su pazienti ricoverati». Come si legge nella sentenza: «Interventi tutti a perfetta conoscenza dell’Azienda, del direttore sanitario e comunque della struttura sanitaria senza che fosse sollevata alcuna obiezione e/o contestazione da parte di tutti gli organi direttivi». Nello specifico di quell’intervento, inoltre, non erano stati commessi errori ed era stato eseguito secondo le linee guida (circostanza avvalorata dalla consulenza tecnica in ambito penale che mandò assolti i medici).

Le competenze tecniche adeguate, secondo i giudici, non esimevano i medici da responsabilità conseguente alla violazione consapevole di precisi, puntuali, quanto inequivoci, obblighi di servizio rispetto ai quali i due medici si erano discostati dal modello procedurale previsto, anzi rivendicando, la giustezza consuetudinaria di tale divergente procedura, la cui violazione non può trovare giustificazione nell’asserita sua costante conoscenza da parte degli organi di vertice dell’Azienda ospedaliera.

E proprio tale scostamento dal modello comportamentale previsto ha esposto la stessa Azienda alla rivalsa risarcitoria prospettata dagli eredi della defunta, risolta in sede transattiva e in proceduta temporalmente ravvicinata anche in conseguenza di questa oggettiva posizione di manchevolezza da parte della struttura.

Abbiamo selezionato questa sentenza della corte di cassazione per affrontare e porre una riflessione piuttosto ampia sulle competenze professionali e tecniche, sulla capacità di eseguire un’operazione o intervento con delega, ma  nel rispetto di evidenze scientifiche e linee guida.

Diabetic foot

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Il Piede Diabetico: uno sguardo alla letteratura

Sinossi a cura di Cagnazzo Roberto

Il piede diabetico negli Stati Uniti colpisce circa 2.000.000 di pazienti ogni anno e rappresenta una vera e propria emergenza sanitaria.

Un recente studio ha evidenziato che il “diabetic foot” determina più riammissioni, più visite, più tempo per ogni visita, rispetto a gruppi di pazienti con patologie più blasonate come tumori, infarti, obesità, depressione, insufficienza renale.

Se si pensa alla previsione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha stimato in oltre 300 milioni il numero di diabetici nel 2025 rispetto ai 120 milioni calcolati nel 1996, si può facilmente immaginare quale dimensione assuma questo problema: stime di questa patologia dicono infatti che circa il 15% dei diabetici nella vita andrà incontro a un’ulcera del piede che richiederà cure sanitarie e presidi più o meno complessi.

Conosciamo meglio questa complicanza del diabete che comporta il maggior numero di ricoveri ospedalieri e per la quale risultano costi molto significativi e solo dall’interazione, dalla sinergia e dal coordinamento di più figure professionali (infermiere, diabetologo, chirurgo vascolare, geriatra, medico di base, podologo, ecc.) è possibile limitare in maniera significativa il manifestarsi di problematiche imputabili al piede diabetico.

Si parla di piede diabetico quando il danno delle arterie (arteriopatia diabetica) o dei nervi (neuropatia diabetica) degli arti inferiori compromette la funzione e/o la struttura del piede. Mentre il piede vascolare (ischemico) è dovuto ad una insufficiente apporto di sangue agli arti inferiori attraverso le arterie, il piede neuropatico è dovuto ad un’alterazione dei nervi che controllano la sensibilità e la motricità degli arti inferiori. Spesso le due alterazioni coesistono ed entrambe si possono complicare per la sovrapposizione di un’infezione.

 Il piede diabetico, come tutte le altre complicanze croniche della malattia diabetica è dovuto ad un cattivo controllo della glicemia e degli altri fattori di rischio cardiovascolare (pressione arteriosa, colesterolo, fumo, ecc.), che rappresenta il cardine della prevenzione.

Il problema più rilevante legato ad un’ulcera del piede nei diabetici è il rischio di un’amputazione maggiore, ossia effettuata sopra la caviglia. Il fatto che più deve far riflettere è che su 100 diabetici amputati circa 84 hanno avuto come causa dell’amputazione un’ulcera del piede aggravatasi nel tempo.

Una adeguata e quotidiana cura ed igiene del piede, oltre alla prevenzione ed al corretto stile di vita, sono fondamentali per i diabetici, onde prevenire complicanze croniche importanti.

Clinical Governance

Che cos’è il Governo Clinico?

Sinossi a cura di Bascelli Emanuele

clinical governanceIl termine “Governo Clinico” deriva dalla traduzione di “Clinical Governance”, che fu introdotto dal governo britannico in un documento di programmazione sanitaria nel 1998 (“A new NHS modern and dependable”).
Operativamente, esso identifica l’insieme delle attività compiute a livello politico, aziendale e clinico, per realizzare un approccio integrato, rivolto al costante miglioramento dell’assistenza fornita. Il livello della sua qualità, infatti, non è imputabile solo alle decisioni assunte dai professionisti che operano sui pazienti, ma è pesantemente influenzata dalle condizioni in cui l’assistenza si realizza, con particolare riferimento alle modalità organizzative attuate ed alle risorse a disposizione del sistema sanitario e dei clinici. Condizioni che sono pesantemente influenzate dalle decisioni che vengono assunte sia a livello delle direzioni aziendali, che a livello politico nazionale e regionale. Il Governo clinico non è una nuova metodologia per il miglioramento della qualità, ma si rea- lizza mediante una infrastruttura che integrando e coordinando le risorse già presenti all’interno delle Aziende e promuovendo l’utilizzo di metodologie già note, ne coordina le energie verso il raggiungimento di obiettivi condivisi. Solo condividendo a tutti i livelli lo stesso orientamento alla qualità dell’assistenza, è possibile “costruire le condizioni per agire in modo coordinato e coerente sull’insieme dei determinanti della pratica clinica, e quindi sulla qualità di quest’ultima (…)” (Grilli et al 2004, p 11).

Quali sono i presupposti per l’applicazione del Governo Clinico?
I presupposti per l’applicazione del Governo Clinico prevedono che esso sia applicato a tutti i contesti di cura e che si realizzi una reale collaborazione tra tutti i gruppi professionali, tra i clinici ed i managers, tra i pazienti e gli staff professionali.

Quali sono gli elementi che compongono il Governo Clinico?
Gli elementi che compongono la struttura della Clinical Governance sono: la formazione, l’efficacia clinica, gli audit clinici, il risk management e la ricerca. La formazione e l’addestramento di tutto il personale coinvolto nelle attività previste per applicare principi, metodologie, strumenti e prestazioni nell’ambito della Clinical Governance sono fondamentali e propedeutici.
La formazione è fondamentale per mantenere e sviluppare le competenze, con particolare riferimento alle innovazioni ed alle conoscenze scaturite dalla ricerca. Quest’ultima è la vera fonte delle conoscenze e del miglioramento della qualità assistenziale. Per questo, le conoscenze da essa generate devono essere convertite immediatamente in informazioni disponibili per i professionisti, che devono prendere le decisioni cliniche sulla base delle evidenze scientifiche ogni qual volta sia possibile.

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Documentare correttamente

La documentazione clinica assistenziale

Dal 1973, ad opera della legge n. 795, si viene ad affermare che “è funzione essenziale dell’infermiere professionale osservare le condizioni o gli stati fisici o emotivi che provocano importanti ripercussioni sulla salute e comunicare tali osservazioni agli altri membri del gruppo sanitario”.

L’abrogato mansionario (D.P.R 14 marzo 1974, n. 225) si limitava, invece, a stabilire che l’infermiere doveva “provvedere alla registrazione su apposito diario delle prescrizioni mediche, delle consegne e delle osservazioni eseguite durante il servizio”.

Con il D.P.R. n. 384 del 28 novembre 1990, veniva stabilito che “deve attivarsi un modello di assistenza infermieristica che, nel quadro di valorizzazione della specifica professionalità consenta, anche attraverso l’adozione di una cartella infermieristica, un progressivo miglioramento delle prestazioni al cittadino”.

Il D.M. n. 794 del 1994 stabiliva poi che l’infermiere “pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico”, pertanto la cartella infermieristica diveniva un fondamentale strumento di lavoro.

La legge n. 42 del 1999, abrogando il mansionario dell’infermiere e la dizione “professione sanitaria ausiliaria” in ogni precedente disposizione di legge relativamente alle professioni infermieristiche, ostetriche, riabilitative, tecniche sanitarie e della prevenzione, ne permetteva finalmente una vera autonomia professionale.

Autonomia rafforzata dalla L. 251 del 2000 che, è utile ricordare, richiama l’impiego per la professione infermieristica e ostetrica di metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza, pianificazione che non può certamente avvenire senza una adeguata documentazione assistenziale. Anche la deontologia dei professionisti sanitari si occupa dell’informazione tra professionisti e della documentazione assistenziale (ad esempio articoli 23, 26 e 27 del Codice deontologico dell’infermiere).

Requisiti di una documentazione corretta:

La veridicità. È il più significativo dei requisiti e indica l’effettiva corrispondenza fra il dato registrato e il fatto, ovvero tra quanto osservato, percepito, pianificato, eseguito e quanto scritto.

La completezza e la precisione. I dati riportati devono essere il più possibile capaci di descrivere quello che è accaduto, dandone una visione completa, per cui non si deve trascurare o omettere elementi che possano essere essenziali.

La chiarezza e la comprensibilità. La registrazione (grafia e comprensione del testo) deve essere chiaramente leggibile da parte di chiunque senza possibili interpretazioni. L’articolo 92 del D.Lgs 196/2003 prevede che i dati personali devono essere comunicati all’interessato in forma intellegibile, ad esempio nel caso di copie di cartelle cliniche, pertanto la comprensione dei dati deve essere agevole.

La tempestività. La registrazione di ogni annotazione deve essere effettuata contestualmente al verificarsi dell’evento. Anche in casi eccezionali (urgenze e/o emergenze) i fatti devono essere registrati il prima possibile: “i fatti devono essere annotati conformemente al loro verificarsi” (Cassazione, 22694/2005).
La pertinenza e la non eccedenza. La documentazione non deve contenere informazioni non in relazione con il paziente e la sua situazione clinica, oppure dati eccessivi e non utili alla gestione dell’assistenza (ad esempio commenti personali o critiche sull’operato di altri professionisti). In caso di necessità si possono però segnalare reclami o conflitti col paziente e/o coi parenti virgolettando le frasi sentite senza l’aggiunta di alcun commento.
La rintracciabilità. Ci deve essere la possibilità di poter risalire a tutte le attività, agli esecutori, ai materiali e ai documenti che costituiscono le componenti dell’episodio di ricovero, secondo una precisa linea cronologica.

Estratto da “Professione infermiere Umbria” Bollettino Ipasvi Anno XV-N°2-2015 di Marco Zucconi e Rosita Morcellini 

Intensità di cura

imageIntensità di cura e complessità: dall’hosting al case management

L’ospedale per intensità di cura è il modello organizzativo che si colloca in continuità nel lungo processo di cambiamento, volto a caratterizzare sempre di più l’ospedale come luogo di cura delle acuzie. Il livello di cure richiesto dal singolo caso consegue a una valutazione di instabilità clinica, associata a determinate alterazioni dei parametri fisiologici e alla complessità assistenziale.

La graduazione dell’intensità delle cure permette di rispondere in modo diverso e appropriato con tecnologie, competenze, quantità e qualità del personale assegnato ai diversi gradi di instabilità clinica e complessità assistenziale. L’organizzazione richiede nuovi ruoli professionali, nuovi strumenti e un rimodellamento della presa in carico del paziente, perché sia il più possibile personalizzata, univoca, condivisa a tutti i livelli di cura.

Occorre quindi passare dall’idea di curare la malattia a quella di farsi carico del malato, dall’hosting al case management.

Questo determina la necessità di introdurre modelli di lavoro multidisciplinari per percorsi e obiettivi, con definizione di linee guida e protocolli condivisi, e presuppone la creazione di un team multidisciplinare capace di operare secondo tale impostazione concettuale. In base a tale approccio, medici e infermieri sono chiamati a una funzione di primissimo piano nello sviluppo di tutte le attività comprese nel percorso diagnostico,terapeutico e assistenziale del paziente. A qualsiasi livello d’intensità di cura ci sono complessità assistenziali diverse. A volte instabilità e complessità assistenziale coincidono perfettamente, in molti casi no. I setting assistenziali si sviluppano prevalentemente su 3 livelli:

Livello di intensive care che comprende le terapie intensive e sub intensive; deve essere centralizzato, polivalente e curare la reale instabilità clinica; l’accesso a questo livello è caratterizzato dalla instabilità del paziente e deve avvenire in una logica di appropriatezza.

Livello di high care costituito dalle degenze ad alto grado di assistenza di breve durata, nel quale confluisce gran parte della casistica, è caratterizzato dalla complessità, una elevata variabilità della complessità medica ed infermieristica.

Livello di low care che è invece dedicato alla cura delle post-acuzie. Fanno parte di questo livello le degenze a basso grado di assistenza. E’ da ritenere che la low care identifichi un’area in cui vengono accolti pazienti con comorbidità, che necessitano ancora di assistenza sanitaria, ma non ad alto contenuto tecnologico ed ad alta intensità assistenziale.

L’ospedale sarà quindi organizzato in strutture modulate sull’intensità di cura, all’interno delle quali si svolgeranno i percorsi di presa in carico da equipe di lavoro multidisciplinari e multi professionali. Il fine che ci si propone è garantire una assistenza ottimale e appropriata ad ognuna delle fasce di appartenenza in cui vengono suddivise i pazienti.

Progetto di Riabilitazione Globale

Progetto di Riabilitazione Globale – Tesi di G.Baldino

ABSTRACT

La seguente trattazione vuole presentare un Progetto di Riabilitazione Globale attraverso l’Osservatorio Operativo Aziendale per Continuità Assistenziale con la figura del Case Manager e verrà sviluppata attraverso l’analisi dei seguenti argomenti:

  • Le Difficoltà delle Dimissioni Ospedaliere
  • La valutazione del Progetto Ricerca-Azione ,aggiornamento PAFF 2007
  • Lo sviluppo di uno Studio Clinico Osservazionale
  • La descrizione dei Materiali e dei Metodi
  • Scale di Valutazione
  • Indagine Conoscitiva
  • Competenze Avanzate delle Figure Professionali
  • Buone Prassi
  • Metodologia della Medicina Narrativa
  • Nuovo Metodo di Riabilitazione
  • Presa in Carico del Paziente
  • La descrizione dei Parametri di misurazione degli esiti dell’attività dell’Osservatorio.

 

Il Nuovo Metodo Riabilitativo non sarà più affidato ad una “ Logica Prestazionale” ma sarà orientato per organizzare un’attività neuro-motoria e respiratoria specifica e adattata in misura temporale congrua ai bisogni reali di partecipazione del paziente .

Attraverso una attenta e scrupolosa “ Decisione Prognostica” con regole ispirate a un Processo Integrato di Presa in Carico della Persona con una  “ Logica puramente Riabilitativa” dove la Persona Disabile è al Centro del Sistema per ottenere una più ricca Qualità della Vita , la sua Integrazione Sociale, Lavorativa e Sportiva avendo come riferimento il Modello Bio-Psico-Sociale

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