Dal Sole24 ore sanità: Gli Infermieri, un profilo a metà

Di Stefano Simonetti

Il Sole24 ore Sanità – 23 marzo 2016

Una recente sentenza della magistratura del lavoro ha fornito una lettura piuttosto interessante del demansionamento o, meglio, del rifiuto del dipendente pubblico di svolgere mansioni inferiori a quelle che lui doveva compiere. La vicenda riguarda un infermiere di una grande Azienda.

Quando si parla di mansioni del dipendente pubblico normalmente ci si riferisce alla problematica dello svolgimento di mansioni superiori per il quale, come è noto, vige una disciplina speciale del tutto diversificata da quella del codice civile, contenuta nell’articolo 52 del decreto legislativo 165/2001.

Quando si parla di mansioni del dipendente pubblico normalmente ci si riferisce alla problematica dello svolgimento di mansioni superiori per il quale, come è noto, vige una disciplina speciale del tutto diversificata da quella del codice civile, contenuta nell’articolo 52 del decreto legislativo 165/2001.

Meno frequente è l’occasione di trattare il tema delle mansioni inferiori rispetto alle quali, nel silenzio del citato articolo 52, si applica invece la medesima normativa civilistica ex articolo 2103 che, peraltro, è stato recentemente modificata in modo decisamente innovativo nel nuovo sesto comma da parte di uno dei decreti delegati del Jobs Act (articolo 3 del Dlgs 81/2015).
In tale contesto, una recente sentenza della magistratura del lavoro ha fornito una lettura piuttosto interessante del demansionamento o, meglio, del rifiuto del dipendente pubblico di svolgere mansioni inferiori. La vicenda riguarda un infermiere di una grande Azienda ospedaliera ma, per i contenuti e i richiami normativi, è del tutto estensibile alla totalità dei lavoratori pubblici.

La pronuncia è quella della Corte di appello di Roma – II sezione lavoro del 17 novembre 2015 con la quale è stata annullata la sentenza di I grado che aveva dato ragione all’infermiere che si era rifiutato di confezionare i Rot (rifiuti ospedalieri tossici) in caso di assenza di personale ausiliario – come prescritto da una circolare interna della quale con il ricorso si chiedeva la disapplicazione – ritenendo che la mansione non rientrasse tra le sue attribuzioni.
Il giudice del lavoro adito aveva deciso che la mansione di cui si tratta non spetta agli infermieri bensì al personale Ota (sic). In appello è stato invece ricordato che per aversi demansionamento è «necessario il prevalente e costante svolgimento di compiti afferenti a un livello di inquadramento inferiore a quello di assunzione».

Per giungere alle conclusioni la Corte di appello ha valutato le osservazioni delle controparti che si erano essenzialmente fondate su di una questione formale.
L’azienda ricorrente richiamava infatti l’articolo 49 del codice deontologico della professione infermieristica che sancisce il principio della compensazione dei compiti correlato alla responsabilità su tutti gli aspetti igienico sanitari del reparto.

L’infermiere convenuto, da parte sua, aveva controbattuto che tale attività di supplenza deve in ogni caso riferirsi alla qualifica immediatamente inferiore che, secondo la parte appellata, è quella di infermiere generico. È stato agevole per la Corte ricordare che l’infermiere generico è una figura abolita per cui «a tutt’oggi la qualifica di ausiliario risulta essere immediatamente inferiore a quella di infermiere professionale».

In disparte dalla confusione sui profili (l’aggettivo “professionale” non esiste più, anche l’Otaa – e non l’Ota! – è a esaurimento, si dimentica del tutto il profilo dell’Oss) e dalla esigibilità giuridica del Codice deontologico nell’ambito del rapporto di lavoro contrattualizzato, la decisione è stata affidata, come si diceva, a un mero formalismo consistente nella verifica di quale sia il profilo immediatamente inferiore a quello dell’infermiere al fine di ritenere o meno legittima la compensazione delle mansioni.
La difesa dell’Azienda, tra l’altro, non ha nemmeno ricordato che lo stesso contratto collettivo di categoria prevede tale fattispecie, peraltro in modo ben più chiaro e sostanziale. Infatti l’articolo 13, comma 5, del Ccnl del 7 aprile 1999 stabilisce testualmente che «ciascun dipendente è tenuto a svolgere anche attività complementari e strumentali a quelle inerenti lo specifico profilo attribuito i cui compiti e responsabilità sono indicati a titolo esemplificativo nelle declaratorie…».
Orbene, risulta evidente che svolgere saltuariamente e per necessità organizzative motivate mansioni proprie di un profilo inferiore – ma anche superiore, evidentemente – non costituisce violazione dell’articolo 52 del Dlgs 165/2001 e rientra nei compiti istituzionali e nei doveri di ufficio.

Va ricordato in proposito che sono decenni che è stato superato il famigerato mansionario cioè quel modello organizzativo rigido e vincolante che faceva rispondere “non mi compete” ogni qual volta al dipendente fosse stato richiesto qualcosa di più o di diverso. Prima dell’introduzione delle qualifiche funzionali il sistema fortemente gerarchizzato imponeva una organizzazione del lavoro fordista nella quale le competenze erano nettamente separate e avulse da quelle del collega sovraordinato.
Nella tipica organizzazione amministrativa italiana – quella ministeriale – un atto amministrativo veniva adottato secondo questo schema: un funzionario direttivo minutava l’atto, un impiegato esecutivo lo batteva a macchina, il dirigente lo firmava e, ad abundantiam, un commesso portava i fogli da una stanza all’altra per i rispettivi adempimenti. Tale organizzazione postulava la piena occupazione, anzi c’è da credere che gli organici pletorici fossero la causa giustificatrice del sistema.
Quando nei primi anni Novanta la Bocconi si interessò al nascente processo di aziendalizzazione delle Usl – intuendo l’enorme potenzialità del fenomeno – i suoi docenti erano soliti rappresentare il dipendente pubblico come un soggetto con un revolver sempre pronto nella fondina: il mansionario. Veniva estratto ogni qualvolta si chiedeva qualcosa, anche banale ed estremamente contingente, che non fosse espressamente previsto nel mansionario. Era normale la polemica del funzionario direttivo che si rifiutava di scrivere a macchina, di fare fotocopie e altri compiti esecutivi o quella della dattilografa che faceva finta di non capire cosa avesse scritto perché non era una impiegata di concetto.
Con il passaggio dalla direzione per atti a quella per obiettivi lo schema di cui sopra è (si spera) completamente superato anche perché la forte riduzione degli organici non lo permetterebbe più. Tra l’altro un tale sistema rigidamente parcellizzato è assolutamente incompatibile con la natura aziendalistica delle attuali realtà sanitarie nelle quali le parole d’ordine sono flessibilità e lavoro di squadra.
Nello specifico degli infermieri è stata considerata una grande vittoria per la professione l’abrogazione del mansionario contenuto nel Dpr 225/1974 a opera della legge 42/1999 che ha elevato quella dell’infermiere – che perse l’aggettivo “professionale” – a professione sanitaria (non più ausiliaria) con il contestuale riconoscimento del percorso di studi a livello universitario. Tuttavia le competenze e le attribuzioni del “nuovo” infermiere non sono state subito così lineari e definite; lo stesso Dm 14 settembre 1994 n. 739, che definisce il profilo, è francamente troppo generico. Con la conseguenza che da 20 anni la problematica di cosa deve o può fare l’infermiere è di forte attualità tanto da giungere al famoso (o sarebbe meglio dire famigerato) comma 566 della legge 190/2014 che ha ritenuto di risolvere la questione del perimetro delle competenze infermieristiche in relazione all’atto medico mediante un accordo Stato-Regioni che, peraltro, non vedrà mai la luce per la netta e insormontabile ostilità da parte dei medici.

A oggi la norma è servita soltanto per illudere una delle parti in causa dell’imminente nascita dell’infermiere specializzato e, nei confronti della controparte, per dimostrare una volta di più la propria chiusura a qualsiasi innovazione che determini perdita di potere o prestigio per la professione medica.

Nota della redazione scientifica OsNacc e AcademyCM

Al di là di meccanismi politici perversi e di situazioni incomprensibili che non ci riguardano affatto, noi di AcademyCM pensiamo che gli infermieri in ogni turno loro di lavoro, in ogni giornata di assistenza offrono il proprio impegno professionale sempre per il bene del malato, del servizio, della propria azienda e soprattutto per la cura del paziente. Gli infermieri hanno ben chiaro chi è il loro principale interlocutore: una persona che ha bisogno di assistenza, di aiuto e di cure. Come non ricordare i tanti infermieri che, autonomamente e a proprie spese, studiano tutta la propria vita professionale, per migliorarsi, per crescere, per essere sempre pronti ai diversi bisogni innovativi di cure, fino divenire ALTAMENTE SPECIALISTI nei propri ambiti di cura. Nel corso degli anni certamente di strada ne è stata fatta, e se ancora oggi manca qualcosa per ottenere quel riconoscimento reale e probabilmente dignitoso  dalle istituzioni, sappiamo bene che un infermiere, a prescindere, ogni giorno darà sempre e comunque tutto se stesso sempre per il bene del paziente per dell’amor proprio al lavoro.

Ricordatevi:…noi siamo pronti!

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