La responsabilità della corretta somministrazione dei farmaci è dell’infermiere

È  RESPONSABILITÀ DIRETTA DELL’INFERMIERE NELLA SOMMINISTRAZIONE DEI FARMACI

Le riforme normative dell’ultimo ventennio hanno permesso di ricavare ambiti di autonomia e responsabilizzazione diretta dell’infermiere che conducono per converso a ritenere, in alcuni casi, insussistente una responsabilità del medico per omessa vigilanza.

Rientrano certamente nell’ambito dell’esclusiva responsabilità e cura dell’infermiere le prestazioni consistenti nella somministrazione dei farmaci. In particolare, l’autonomia e la responsabilità dell’infermiere riguardano le procedure e le VALUTAZIONI necessarie per GARANTIRE la CORRETTEZZA DELL’APPLICAZIONE DELLA CURA.

La prescrizione, per contro, costituisce ancora atto proprio ed esclusivo del medico, che deve individuare la scelta del farmaco più appropriato sulla base della diagnosi e della indicazione terapeutica ritenuta più idonea al trattamento della patologia, MA L’INTERPRETAZIONE DELLA TERAPIA, COSÌ COME LA (eventuale preparazione e) SOMMINISTRAZIONE DELLA STESSA, SONO ATTI PROPRI DELL’INFERMIERE.

A fronte dell’autonoma responsabilità dell’infermiere, nell’ambito della fattispecie di somministrazione dei farmaci, ARRETRA, evidentemente, la POSIZIONE DI GARANZIA DEL MEDICO con riferimento all’obbligo di vigilanza dell’operato del predetto professionista sanitario.

(Fonte Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net)
http://www.dirittosanitario.net

Review Cochrane sulla prescrizione dei farmaci da personale infermieristico

Review della  Cochrane, farmacisti e infermieri sanno prescrivere i farmaci come i medici

In vari Paesi (fin dal 2006, nel Regno Unito) è stata introdotta la possibilità di prescrivere farmaci da parte di figure professionali non mediche, quali infermieri e farmacisti. Obiettivo: favorire l’accesso ai farmaci, liberare tempo per i clinici e sfruttare al meglio le capacità del personale non medico. Sono già stati pubblicati molti studi di confronto sulla capacità dei “prescrittori indipendenti” rispetto ai camici bianchi, valutandone la capacità di iniziare, cambiare o sospendere un trattamento senza una stretta supervisione medica. Esce ora una revisione Cochrane di 46 studi di questo tipo – condotti nel setting delle cure primarie, in relazione alla gestione di malattie croniche – con l’arruolamento di infermieri in 26 casi e di farmacisti nei restanti 20. La maggior parte delle ricerche sono state condotte in Usa (25), seguite da Uk (6), Australia, Canada, Irlanda e Olanda. Quattro studi sono stati condotti in Paesi a basso reddito: Colombia, Sud-Africa, Uganda e Tailandia.

Dall’analisi dei dati è emerso che gli outcome dei pazienti, dopo prescrizione operata da infermieri o farmacisti, erano simili a quelli successivi a prescrizione medica. Viene inoltre offerto qualche dettaglio su misure specifiche. In relazione all’ipertensione, i pazienti trattati con farmaci ricevuti da infermieri e farmacisti hanno fatto registrare livelli pressori inferiori rispetto ai soggetti in terapia con medici (-5,31 mmHg in 12 trial per un totale di 4.229 pazienti). Situazioni analoghe si sono registrate riguardo ai valori di colesterolemia-Ldl (-0,21 mmol/L in 7 trial, per un totale di 1.469 partecipanti) ed emoglobina glicata (-0,62%) in 6 trial, con 775 arruolati). L’adesione al trattamento, la soddisfazione del paziente e la qualità di vita correlata alla salute sono risultate simili nei soggetti in terapia con farmaci prescritti tanto da medici quanto da infermieri o farmacisti. Non sono state invece riscontrate sufficienti evidenze per affermare con certezza se i prescrittori indipendenti abbiano effettivamente usato meno risorse, fatto risparmiare tempo ai medici o ridotto la comparsa di effetti avversi.

Conclusioni degli autori

Secondo gli autori, la revisione offre sufficienti rassicurazioni sul fatto che i prescrittori indipendenti, appropriatamente sottoposti a training, possano prescrivere in modo altrettanto efficace quanto i medici nel caso di pazienti in condizioni a lungo termine. In particolare, si suggerisce che infermieri e farmacisti potrebbero essere un utile supporto nei centri per la gestione di patologie croniche, quali per esempio cliniche diabetologiche o per il trattamento dell’ipertensione. Peraltro, si rileva, non è noto se tale attività prescrittiva indipendente determini un risparmio complessivo di costi considerando anche il training necessario e la sua durata. Infine, si ricorda come, sotto il profilo metodologico, la disomogeneità delle misure utilizzate nei vari studi abbia reso non sempre possibile o agevole il loro diretto confronto.

link allo studio: Cochrane Database Syst Rev, 2016 Nov 22;11:CD011227. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27873322

leadership, invidie e gelosie

La gelosia della leadership. Dal significato profondo delle parole invidia e gelosia si spiegano molte dinamiche relazionali in azienda

Gelosia. Sostantivo femminile: sentimento tormentoso provocato dal timore, dal sospetto o dalla certezza di perdere qualcosa o qualcuno ad opera di terzi.

Leader. Sostantivo: capo, guida di un partito o di uno schieramento politico o sindacale o di un movimento culturale, di un’azienda. Per estensione, chi occupa una posizione di prestigio o di primo piano.

Ho voluto iniziare con le definizioni perché, come mi disse una volta una persona che stimo moltissimo e che considero il mio mentore, “Le parole hanno un peso”. Egli è un consulente di direzione conosciuto per le sue indiscutibili capacità, un profondo esploratore dell’animo umano che eccelle in molti saperi tra cui la storia, la filosofia, la teologia e la psicologia. Conosce l’economia d’impresa. Discute alla pari con avvocati e sindacalisti poiché dispone di una grande competenza nel diritto sindacale e del lavoro. E’ un uomo intelligente ed ha una mente così affilata che riesce a collegare argomenti apparentemente diversi, offrendoti una prospettiva analitica dei fatti con un punto di vista non comune e a cui non avresti mai pensato. Al contempo è umile e disponibile, prodigo di consigli, suggerimenti e quando può ti dà una mano senza risparmiarsi.

Durante uno dei nostri incontri di dialogo, conoscenza e scambio di idee, gli confessai che lo invidiavo per quello che riusciva a fare, per l’enorme cultura che aveva, per le sfide che aveva affrontato e i risultati che aveva raggiunto. Glielo dissi con profondo senso di ammirazione perché è così alta l’opinione che ho di lui che davvero un giorno vorrei assomigliargli, come persona e come professionista. Mi guardò, benevolo, come benevolmente si guarda un discente che fa un banale errore grammaticale e mi corresse dicendomi che “Invidia è una parola dal forte senso negativo. Deriva dalle parole latine in e vĭdēre, ovvero vedere male o gettare il malocchio. Preferirei che tu mi dicessi che sei geloso. Gelosia, infatti, deriva dal verbo greco ζηλoς (zelos) che esprime il desiderio di emulazione”. Con mia enorme sorpresa, quel giorno scoprii di essere geloso e che questo non solo non era un male, ma era accettato dall’oggetto di questo sentimento. Grande persona il mio mentore, riesce sempre a stupire e a stupirmi.

Invidia e gelosia in azienda

L’invidia, quindi, è una brutta bestia, meglio la gelosia. Capita però di vedere spesso la bestia in azione, troppo spesso, anche sul posto di lavoro dove la gelosia dovrebbe avere campo libero e invece è l’invidia a farla da padrona. Molti infatti invidiano i colleghi, i datori di lavoro, quelli che hanno uno stipendio più cospicuo, un livello più alto. Vogliono quello che hanno gli altri senza essere disposti a fare la stessa fatica che hanno fatto loro per ottenerla. Sprecano risorse personali nel volere il loro male invece di migliorare se stessi. Dissipano energie e tempo, cercando di mettere i bastoni tra le ruote a coloro che, a loro dire, hanno una posizione migliore, sotto ogni punto di vista, senza pensare che invece dovrebbero esserne gelosi. Sì, gelosi, costantemente. Perché se l’invidia spinge verso comportamenti controproducenti e distruttivi, la gelosia porta l’essere umano a migliorarsi. L’invidioso, infatti, denigra l’opera altrui, il geloso cerca di motivare se stesso per costruirne una più grande. L’invidioso perde tempo cercando di distruggere quelli che erroneamente considera antagonisti, il geloso cerca di costruire se stesso, di emulare l’altro e di raggiungere, se possibile, obiettivi più alti. L’invidioso è sciocco, perché gode a veder cadere gli altri pensando così di essere migliore di loro, ma in realtà non riesce a capire che a rimanere nel cuore delle persone è colui che costruisce non quello che distrugge.

La gelosia in azienda può essere quindi vantaggiosa. Se è il leader ad esserne l’oggetto, essa spinge il subordinato a migliorare la propria condizione diventando talmente competente da essere egli stesso oggetto di gelosia da parte degli altri componenti del team. Una catena virtuosa che spinge ognuno a migliorare se stesso e a diventare artefice di una condizione migliore, proficua, creativa per tutti. L’invidia invece abbruttisce tutto e non porta a nulla.

Meglio se molti leader e pochi capi

Questo ragionamento presuppone che nel gruppo ci debbano essere molti leader e pochi capi. Oppure che ci siano capi che sono anche leader e che la leadership venga concepita nell’eccezione inglese di “guida”, di riferimento, anche nelle mansioni non apicali. Ognuno di noi può, infatti, esprimere competenze che gli altri non hanno, diventando così un riferimento anche nel proprio piccolo ed essere oggetto di una sana altrui gelosia. Un apprendista infatti può essere particolarmente abile nel suo lavoro e può non esserlo un dirigente. La gelosia della leadership dovrebbe quindi essere una tensione emotiva costante verso il miglioramento di sé.

Ma in cosa dovremmo migliorare per essere a nostra volta oggetto di gelosia? Non solamente nella sterile autorità che prende il nome di una posizione, di un grado su una spallina, di una medaglia sul petto che può essere affibbiata a volte anche a chi è senza capacità, per anzianità, per compiacenza, per distruttiva invidia. Le competenze non si guadagnano saltando i gradini della scala gerarchica. Dovremmo ambire all’autorità che deriva dall’autorevolezza, guadagnata con il merito, con la fatica, con lo studio e con la tensione costante verso il miglioramento personale.

Un tempo ascoltai la frase “Il capo, per essere un leader, dovrebbe lavorare per la propria autodistruzione” e con questo concetto l’oratore invitava chiunque ricoprisse una qualsiasi posizione di responsabilità a condividere il proprio sapere affinché i dipendenti potessero raccoglierle, rielaborarle, riadattarle e migliorarle a beneficio dell’organizzazione. Al contempo quelle conoscenze rielaborate, riadattate, migliorate e condivise, sarebbero diventate oggetto di gelosia e quindi lo sprone che avrebbe portato il leader a migliorare anche se stesso.

La gelosia a tutti i livelli potrebbe muovere il mondo e invece spesso viene frenato dall’invidia. Proprio perché essa è, per definizione, la paura di perdere qualcosa o qualcuno a cui si tiene, dovrebbe essere la spinta verso la massima collaborazione all’interno di un gruppo. Essere gelosi l’uno dell’altro, il non voler perdere il collega o il capo a cui si tiene, diventa quindi il collante estremo di un team valido e spinta centrifuga nei confronti di coloro che nel team non si riconoscono, che non portano un valore aggiunto, che invidiano l’altrui opera tentando di distruggerla. Il vero leader dovrebbe quindi essere oggetto di una sana gelosia, lavorando per la propria autodistruzione e stimolando questo modo di agire anche negli altri.

Steve Jobs disse “Siate affamati, siate folli” avrebbe dovuto aggiungere anche “siate gelosi”. Ma lui non aveva il mio mentore.

di Piero Vigutto editoriale “Senza Filo”

Academy case management Italia al congresso Anímo 2017

Siamo stati invitati per una sessione parallela sulla Lean Organization

Ecco non anteprima alcune informazioni utili

XII Congresso Nazionale ANÍMO
Informazioni Generali
DURATA DEL CONGRESSO
13 e 14 MAGGIO 2017

http://fadoi2017.it/Animo.aspx

TOPICS
Handover
Rischio di cadute
Sicurezza trasfusionale
Mentoring
Insufficienza respiratoria
Ecografia infermieristica
Somministrazione terapia orale
Metodologia SBAR
Pianificazione assistenziale
Self empowerment
Lean organization
Picc e Midline
Emergenza immigrazione
Staffing in Medicina Interna
Intensità di cura
Complessità assistenziale

EDUCAZIONE CONTINUA IN MEDICINA
Fondazione FADOI è Provider ECM – codice identificativo 428 – ha accreditato il’ XII Congresso Nazionale ANÍMO ed i Corsi monotematici per la categoria Infermieri. ATTENZIONE Si rende noto che ai fini dell’acquisizione dei crediti formativi è necessaria la presenza effettiva al 100% della durata complessiva dei lavori e almeno il 75% delle risposte corrette al questionario di valutazione dell’apprendimento. Nessuna eccezione verrà fatta per ritardi anche di pochi minuti. SI RACCOMANDA PERTANTO DI ARRIVARE IN SEDE IN ANTICIPO RISPETTO ALL’INIZIO DEI CORSI.

Segreteria Organizzativa
Planning Congressi Srl
Via Guelfa, 9 – 40138 Bologna
Tel. 051300100 – Fax 051309477
Ref. Silvia Pio
e-mail:s.pio@planning.it

Sede del congresso
Hilton Sorrento Palace

Via S. Antonio, 13

Sorrento 80067

http://www3.hilton.com/

Se il tuo impegno non viene riconosciuto, lavorerai meno e peggio

Se il tuo impegno non viene riconosciuto, lavorerai meno e peggio

Immaginate di lavorare duramente a una presentazione, in vista di un pitch per un’idea di business della vostra azienda. Vi ci mettete giorno e notte, saltate la visione di Rogue One cui tenevate tanto e vi chiudete in casa persino nel weekend, per gli ultimi ritocchi. Finalmente lunedì mattina vi presentate dal responsabile di progetto con l’ultima versione e lui vi dice: “Ottimo lavoro, però la presentazione è cancellata. Comunque non preoccuparti, ci saranno presto altre occasioni”.

Il vostro stipendio, alla fine del mese, arriva come sempre e il vostro contratto non è in discussione, eppure provate a rispondere sinceramente a questa domanda: non vi sentireste demotivati dopo un episodio del genere? È più o meno probabile che, la sera di quel lunedì, usciate dall’ufficio prima del solito? Se siete come la stragrande maggioranza delle persone, sicuramente questa situazione vi avrà scornato al punto giusto e non è improbabile che, appunto, quella sera decidiate di andarvene prima e che, magari, seguiate lo stesso comportamento per un po’ di tempo.

Un esperimento con i Lego ha provato che è la motivazione il motore della costruzione: vedere concluso il proprio progetto spinge a lavorare meglio.

Il fatto è che il riconoscimento del nostro lavoro, o la parola ‘fine’ su un progetto cui lavoriamo, è un importante detonatore della nostra motivazione, che è un puzzle più complesso di quello che si possa pensare. L’incentivo monetario, lo stipendio insomma, è sicuramente un fattore importante, importantissimo anzi, nello spingerci a fare qualcosa. Ma non è tutto e, anzi, sempre più è importante, soprattutto nel mondo frenetico del digital e delle start up, tenere in considerazione altri aspetti altrettanto fondamentali e meaningful.

La motivazione è un ombrello sotto cui stanno tante cose: c’è sicuramente il denaro (perché no?), ma ci sono anche l’orgoglio, il significato appunto di ciò che si fa, il senso di lavorare in un ambiente sereno, lo scopo. Ognuna di queste dimensioni concorre a fare di noi delle persone motivate e non attraverso una semplice somma delle componenti, ma con effetti che si sovrappongono gli uni agli altri. Nelle scienze sociali, molti studi hanno dimostrato l’esistenza di meccanismi peculiari: si parla di effetto Lego proprio per dire quanto vedere concluso un proprio lavoro sia importante. E si chiama così perché alcuni ricercatori, per misurarlo, hanno chiesto a due gruppi di studenti di partecipare a un esperimento.

Il task, per usare un linguaggio tecnico, consisteva nell’assemblare, seduti comodamente su un tavolo davanti allo sperimentatore, dei Bionicles. La remunerazione era strutturata in modo che, per il primo Bionicle assemblato, si venisse pagati 3 dollari; per il secondo 2,7; per il terzo 2,4 e così via.

I membri del primo gruppo, nel cosiddetto trattamento meaningful, svolgevano il compito in modo che, finito di assemblare un robottino, lo stesso veniva posto dal ricercatore in una scatola. Le persone in questa condizione potevano quindi decidere di costruirne un secondo e, successivamente, un terzo e così via.

Il secondo gruppo, invece, era sottoposto al trattamento cosiddetto di Sisifo, in omaggio alla figura della mitologia greca che rappresenta le fatiche inutili per antonomasia. In cosa differiva questo secondo setting? Di fronte allo sperimentatore, ogni soggetto poteva montare un Bionicle e ricevere 3 dollari, come nel primo caso. Quando, però, finiva di montare il robot e passava al secondo, pagato 2,7 dollari, il primo Bionicle veniva immediatamente smontato dal ricercatore davanti agli occhi dello sfortunato studente. Se, dunque, quest’ultimo avesse deciso di assemblare il terzo bionicle, di fatto avrebbe finito per montare il primo, in un circolo vizioso. Pensate ad alcune pratiche di mobbing, in virtù delle quali si chiede a un lavoratore di eseguire ripetutamente operazioni completamente inutili e prive di significato. Alcune attività di chi è costretto ai lavori forzati assumono questa caratteristica di inutile crudeltà: scavare buche per ricoprirle e ricominciare a scavarne in un altro punto del terreno.

I risultati dello studio sono molto interessanti e mostrano che chi si trovava nel trattamento di Sisifo assemblava in media quattro robottini in meno di chi era nell’altra situazione. Quattro bionicle sono veramente molti e il dato interessante è che anche osservatori esterni, chiamati a predire l’esito dell’esperimento con i due diversi setting, non erano in grado di valutare correttamente la diversità di performance nelle due diverse situazioni. Chi guardava dall’esterno, cioè, era sì in grado, a priori, di stabilire che i soggetti del trattamento ‘dotato di significato’ avrebbero montato più bionicle, ma sbagliava completamente a stimare la differenza.

Da un punto di vista economico e delle sue implicazioni, l’effetto Lego ci dice che la mancanza di significato, di fatto, agisce in modo che il salario di riserva del lavoratore, l’ammontare minimo di denaro richiesto per accettare di svolgere una certa mansione, aumenta quando la propria attività è percepita come priva di significato.

Nel mondo inevitabilmente rapido e disruptive delle start-up i cambi di programma sono all’ordine del giorno: le idee nascono e muoiono continuamente, anche perché, come diceva Bertold Brecht, ‘sono come le palle di neve e se le tieni in tasca, si sciolgono’. Il fatto è, però, che bisogna comunque di qui le presentazioni interne negli spazi di coworking o la fase di beta continua, che non hanno soltanto lo scopo di testare il prodotto o il servizio per affinarlo al meglio, ma consentono sempre di vivere in una dimensione di ricerca perenne del significato. Al di là delle gratifiche monetarie, poi, seppure decisamente importanti, nulla può essere più salutare di una cena di gruppo con il proprio team, di una visita collettiva a una mostra: esperienze che cementino le relazioni e creino quel cuscinetto emotivo in grado di far fronte ai più che probabili incidenti di percorso nel growth hacking.

Chiedetevi se i vostri collaboratori sono felici e cercate di disegnare un ambiente per loro denso di significato, davvero meaningful.

di Luciano Canova www.centodieci.it

Progetto di revisione organizzativa: dal Functional Nursing al Modular Nursing

Progetto di revisione organizzativa: dal Functional Nursing al Modular Nursing

a cura di Fabio Trecca

Abstract

Il dinamismo del sistema sanitario e l’interessante produzione di studi, ricerche e progetti arricchiscono le modalità attraverso cui “fare” e organizzare l’assistenza infermieristica.

Nel presente progetto è stata attuata un’efficace politica di changes of nursing organitation che ha permesso di garantire non solo la centralità  della persona e la personalizzazione degli interventi ma, ha consentito agli stessi operatori, di poter esprimere maggiormente la loro professionalità e di poterlo fare con maggiore controllo, sicurezza e soddisfazione professionale.                                                                                   La correlazione esistente tra soddisfazione professionale (employee satisfaction) e modello organizzativo assistenziale adottato, è uno degli obiettivi di questo progetto.

 

Leggi il progetto completo: clicca nel link di seguito – MODULAR NURSING –

 

Per motivare i dipendenti i soldi non servono

Per motivare i dipendenti i soldi non servono. Un esperto spiega la ricetta per far lavorare di più. E meglio

IMG_1847Parliamo spesso di TED, la conferenza che esplicitamente affronta argomenti diretti su “tutto ciò che vale la pena parlare”. Affrontiamo un intervento (qui di seguito tradotto in italiano) sulla motivazione.

A tutti piace avere più soldi, ma non dobbiamo pensare che ci motiverebbe a lavorare più duramente. L’autore ed esperto di motivazione Dan Pink lo sa meglio di chiunque altro. Nel suo TED talk del 2009 intitolato “Il puzzle della motivazione”, che si basava sul suo libro di successo “Drive”, Pink spiega il “disallineamento fondamentale” che esiste tra scienza e business.
La scienza, dice Pink, sa che gli incentivi non funzionano. Il business, tuttavia, deve ancora arrivarci.
Ecco per il consiglio che dà per rendere il sistema il migliore possibile.
Pink inizia il suo discorso delineando un esperimento di psicologia popolare noto come il “problema della candela”. L’obiettivo è quello di utilizzare le puntine e i fiammiferi per fissare una candela alla parete.

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La maggior parte delle persone si fa avanti con soluzioni intelligenti, ma alla fine sbagliate. La risposta giusta comporta lo svuotamento della scatola di puntine e l’attaccare la scatola al muro, creando così una piattaforma per la candela.

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Il mondo business è pieno di “problemi della candela”, sostiene Pink. In tutto il mondo, le aziende chiedono ai loro dipendenti di risolvere problemi che richiedono risposte non ovvie.

Ma c’è un problema … Secondo Pink, il modo in cui le aziende motivano le persone a risolvere questi problemi è completamente sbagliato: loro si basano su incentivi come i bonus, i benefit, e roba gratis, mentre tutta la scienza suggerisce che questo non funziona.IMG_1842

Uno studio a cui fa riferimento ha coinvolto due gruppi di studenti universitari che svolgevano attività creative cronometrate. Ad un gruppo è stato detto che avrebbero guadagnato più soldi se avessero finito il lavoro più velocemente. L’altro gruppo non avrebbe guadagnato nulla.

Boys play a mini soccer game during an event for traditional games at a school in Jakarta, Indonesia, October 1, 2016. Picture taken October 1, 2016. REUTERS/Iqro Rinaldi

Sorprendentemente, il gruppo con il maggior incentivo finanziario ha fatto peggio in generale. L’esperimento e i suoi risultati sono stati replicati da allora in innumerevoli forme diverse, dice Pink.

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“La cosa allarmante è che il nostro sistema operativo aziendale – si pensi alla serie di presupposti e protocolli dietro alle nostre imprese, a come motiviamo le persone, a come adoperiamo le nostre risorse umane – è costruito interamente intorno a questi motivatori estrinseci”.

Per i lavori del 21 ° secolo, questo può portare a enormi perdite di risorse e ore di tempo sprecato. Se le aziende vogliono essere efficaci, dice Pink, hanno bisogno di adottare un nuovo approccio.

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Questo nuovo approccio si basa sul dare ai dipendenti tre cose fondamentali: l’autonomia sul lavoro, la sensazione di poter avere la padronanza di ciò che fanno, e un più grande obiettivo da raggiungere.

Nel suo discorso, Pink affronta solo l’autonomia. Per fare degli esempi, egli guarda alle aziende tech che ogni tanto danno ai loro dipendenti la libertà di lavorare su quello che vogliono.

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A Google, per esempio, i dipendenti hanno avuto l’ormai famoso orario 80/20. I dipendenti possono scegliere di spendere l’80% del loro tempo lavorando e il 20% su progetti di natura creativa.
L’iniziativa ha portato all’invenzione di successi come Google News, Gmail, e AdSense. In “Drive” Pink delinea gli altri due fattori. La padronanza è fondamentale perché la gente ha bisogno di sentire che sta facendo progressi per rimanere impegnata. Ma senza scopo, quel progresso diventa banale e insoddisfacente.

E conclude: “Se riuscissimo ad andare oltre questa pigra, pericolosa ideologia di carote e bastoni, potremmo rafforzare le nostre imprese, ed essere in grado di risolvere molti di questi ‘problemi della candela’, e forse, forse – saremmo in grado di cambiare il mondo”.

 

4 competenze per ripensare l’educazione manageriale

4 competenze per ripensare l’educazione manageriale

Nota introduttiva di AcademyCM:

Quando parliamo di management in sanità, parliamo generalmente di altro in quanto,  il Management  è tutta un’altra cosa, anche se esistono molti punti in comune perché l’uno non esclude l’altro. Forse è la dirigenza infermieristica che ha confuso alcune cose rinunciando a molte delle splendidi attività caratterizzanti la professione di infermiere.

Qui di seguito un  interessante contributo su come poter ripensare ad un ruolo manageriale senza perdere il filo.

Così come in azienda si è soliti distinguere il ruolo di manager da quello di professional, allo stesso modo ha poco senso assimilare la figura del manager a quella di un medico, un avvocato o un commercialista (ndr: o a quello di un dirigente infermieristico, di un coordinatore infermieristico, di un infermieri case manager, ECC…).

Queste rappresentano professioni con un corpo di conoscenze specifiche e un sistema di abilitazione universalmente riconosciuto.

Il management, al contrario, non ha né certificazioni né un know-how generalmente accreditato.

Ed è bene che sia così.

Da un professionista ci si aspetta che trovi una giusta soluzione a un problema attingendo a un dato set di conoscenze.

Da un manager ci si aspetta che sappia leggere il contesto in cui è inserito e riesca a mettere la propria organizzazione, il proprio team, nelle condizioni di raggiungere uno specifico obiettivo in un dato momento storico e tenendo in considerazione la continua evoluzione del contesto in cui opera.

Se questo è vero, è interessante notare che i percorsi formativi per manager e professionisti non sono però tanto diversi. Un Mba, per esempio, è strutturato in moduli disciplinari (marketing, finanza, operations, HR, ecc.) e mira a conferire per ognuna di queste discipline un set di tecniche e tools specifici. Al conseguimento di un Mba, il partecipante possiede una conoscenza approfondita delle principali tematiche aziendali ed è quindi in grado di sapere come muoversi per risolvere un dato problema in ogni ambito gestionale.
imageMa questo è sufficiente per potersi definire un buon manager? È certamente opportuno che un commercialista conosca i principali adempimenti amministrativi, le regole di bilancio e delle operazioni fiscali e previdenziali. E lo stesso discorso può essere fatto per i medici, gli avvocati e, in genere, per tutte le figure professionali. Per un manager la situazione non è così semplice. Padroneggiare tecniche quali l’activity-based costing o la portfolio analysis, costruire strategy maps e Gantt charts, adottare problem solving tree o diagrammi di Ishikawa, non è sufficiente per essere un buon manager. Non voglio dire che conoscere queste tecniche e tools non sia utile. Lo è certamente, ma è indubbio che il “management” sia molto di più dell’adozione di una tecnica.

Quale alternativa quindi? Un’indicazione interessante arriva dalle riforme scolastiche adottate in Norvegia e in Finlandia che hanno deciso di abbandonare il sistema basato sul teaching by subject ossia fondato sull’insegnamento delle singole materie (storia, geografia, matematica) in favore di un sistema basato su teaching by topics, quindi multidisciplinare, basato su tematiche trasversali quali l’Unione Europea, i cambiamenti climatici, l’evoluzione della condizione umana, la realizzazione di prodotti, ecc. Lo scopo della riforma è quello di stimolare gli studenti a ragionare in modo trasversale, sviluppando senso critico e una maggiore capacità di collegamento tra diversi argomenti.

academycmteamLa scuola deve preparare gli studenti a diventare cittadini e ad avere un ruolo all’interno della società. Le ragioni che hanno portato a questo nuovo sistema educativo sono legate all’evoluzione della società che sta diventando sempre più interconnessa e in movimento. Oggi le problematiche da affrontare hanno assunto una natura multidisciplinare. Economia, politica, tecnologia, benessere, pace sono temi che non possono essere affrontati con una visione e un approccio disciplinare. Richiedono competenze ampie e trasversali, una visione sistemica e delle analisi multidisciplinari.
Un simile approccio dovrebbe essere adottato anche nella formazione della classe dirigente. La maggior parte dei casi affrontati nelle aule di management oggi sono tematici (casi di marketing, di finanza, di operations ecc). Questo aiuta i futuri manager a conoscere come affrontare problemi e situazioni specifiche e dai contorni ben delineati. Ogni manager con esperienza sa bene, tuttavia, che la parte più difficile è l’individuare approcci e modalità per affrontare problematiche aziendali trasversali.
Perché non riusciamo a sviluppare nuovi prodotti di successo? A cosa è dovuto l’alto turnover dei nostri migliori collaboratori? Perché in alcuni Paesi non riusciamo a sfondare? Qual è il giusto bilanciamento tra orientamento al cliente ed esigenze di standardizzazione e produttività? Da cosa dipende lo scarso livello di engagement di alcuni strati di popolazione? Questo genere di problemi non può essere affrontato né adottando un set di tecniche e di tools, né all’interno di un ambito strettamente disciplinare.
In un ambiente competitivo interconnesso che evolve non linearmente cambiano le competenze fondamentali di un manager. È certamente utile avere delle buoni basi di conoscenza sui principali ambiti aziendali, tuttavia ritengo che ciò di cui ha veramente bisogno un manager siano quattro competenze fondamentali:

CONTEXT READING: capacità di leggere rapidamente la situazione in cui ci si trova, comprendendo le diverse variabili in gioco e i relativi trade-off, sviluppando consapevolezza delle dinamiche relazionali delle persone e sapendo collocare i diversi aspetti in un dato momento temporale.

COMPLEX THINKING: attitudine a sviluppare una visione sistemica della situazione da affrontare dimostrando quindi una forte consapevolezza delle possibili retroazioni (conseguenze) generate delle proprie e delle altrui azioni e decisioni.

CONTEXT GENERATION: attitudine e volontà di costruire progressivamente, attraverso le proprie azioni e decisioni, un contesto relazionale potenzialmente favorevole al raggiungimento di un risultato comune.

RESULT ORIENTATIONS: abilità di entrare in azione, di decidere e agire rapidamente per raggiungere un obiettivo. Questa competenza manageriale classica, già presente in molti competency model aziendali, non rappresenta quindi una novità ma deve essere inserita e sviluppata contestualmente alle prime tre nuove competenze manageriali.

Lo sviluppo di queste competenze non può essere affrontato con un approccio disciplinare e con casi aziendali tematici. Chi studia management deve essere calato in contesti organizzativi realistici ancorché didattici, entro cui sviluppare la sua azione manageriale e le quattro competenze indicate. Gli stessi docenti dovrebbero essere formati su queste nuove competenze manageriali. Perdono il ruolo di “insegnamento” di un corpo di strumenti e tools specialistici per assumere il ruolo di guida e facilitatore dei futuri manager nella loro azione manageriale in quel dato contesto specifico.
In sostanza, il management non può più rimanere un insieme di ricette, tools e check list applicative. Deve abbandonare questo retaggio ultra razionalista e scientista. Il manager non è un professionista che attingendo alle sue conoscenze deve avere la risposta giusta. È un lettore di situazioni contingenti e un generatore di nuovi contesti. Le sue armi non sono le risposte giuste (preconfenzionate) ma le domande che si pone prima di entrare in azione.

Di Alessandro Cravera, Executive Summary, Idee per i leader

Academy Journal

Academy journal: la rivista ufficiale della piattaforma sarà presto online. 

Fermare la diffusione del sapere è uno strumento di controllo per il potere perché conoscere è saper leggere, interpretare, verificare di persona e non fidarsi di quello che ti dicono. La conoscenza ti fa dubitare. Soprattutto del potere. Di ogni potere. (Dario Fo)

INTRODUZIONE

Il bollettino “Academy Journal, Rivista italiana di management, organizzazione e clinica”, pubblica contributi inediti (ricerche, esperienze, progetti di case management Nazionali, rassegne di aggiornamento, case report, traduzioni ecc.) riferiti alla teoria e alla prassi assistenziale, nel campo della clinica e relativi alle discipline medico-biologiche e sociali, argomenti di organizzazione, di management di economia e politica sanitaria. Gli articoli proposti per la pubblicazione dovranno es- sere inviati via e-mail al seguente indirizzo: emanuele. bascelli@gmail.com oppure utilizzando direttamente il form presente sul sito di ACADEMY CASE MANAGEMENT ITALIA .

NORME EDITORIALI

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esempio bibliogra a:

1. Calvani M. Monitoraggio e trattamento della fetopatia dia- betica. Rec Progr Med 1982; 72:350-55.

2. Ferrata A, Storti E, Mauri C. Le malattie del sangue (2 ed.). Milano: Vallardi, 1958, pag. 74.

3. Volterra V. Crisi di identità storica ed attuale dello psichiatra. In: Giberti E (ed). L’identità dello psichiatra. Roma: Il Pensie- ro Scienti co Editore, 1982.

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