Ridurre gli sprechi

Ridurre gli sprechi e premiare il rigore scientifico nella ricerca biomedica: la campagna Lancet-REWARD

Secondo stime relative al 2010, le spese globali per la ricerca scientifica ammontano ad oltre 240 miliardi di dollari: se questi investimenti hanno indubbiamente determinato rilevanti miglioramenti di salute delle popolazioni, ulteriori traguardi potrebbero essere raggiunti eliminando sprechi e inefficienze nei processi con cui la ricerca viene commissionata, pianificata, condotta, analizzata, normata, gestita, disseminata e pubblicata. Oggi, infatti, la ricerca biomedica è afflitta da un fenomeno imbarazzante e sempre più diffuso: numerose scoperte inizialmente promettenti non determinano alcun miglioramento nell’assistenza sanitaria perché molti studi non riescono a concretizzare robuste evidenze da integrare nelle decisioni che riguardano la salute delle persone (1).

Il quadro sopra descritto consegue a un complesso sistema di azioni e relazioni tra diversi attori della ricerca, ciascuno dei quali agisce in sistemi che presentano rischi e fattori incentivanti. Le azioni risultano dall’interazione tra capacità (intellettive e fisiche del singolo di affrontare azioni specifiche), opportunità (fattori esterni all’individuo che rendono possibili le azioni) e motivazioni (driver che motivano e guidano i comportamenti).

Nel 1994 Douglas Altman nello storico editoriale The Scandal of Poor Medical Research denunciava la scarsa qualità nel disegno e nel reporting della ricerca, affermando che “ogni anno ingenti somme di denaro vengono investite per condurre ricerca gravemente viziata da disegni di studio inappropriati, campioni piccoli e non rappresentativi, metodi di analisi inadeguati e interpretazioni distorte” (2). Da allora le problematiche si sono moltiplicate e si sono accumulate consistenti evidenze del loro impatto, facendo emergere ulteriori preoccupazioni sulla scarsa qualità della ricerca.

Nel 2009 Chalmers et Glasziou identificavano le principali fonti di sprechi evitabili nella ricerca biomedica: quesiti di ricerca irrilevanti, qualità metodologica inadeguata, inaccessibilità dei risultati, studi distorti da reporting selettivi e altri tipi di bias (3). Senza considerare le inefficienze delle fasi di regolamentazione e gestione della ricerca gli sprechi ammonterebbero all’85% degli investimenti, un impatto talmente elevato che la discussione innescata da quell’articolo ha generato numerosi eventi finalizzati a esplorare strumenti e strategie per affrontare una situazione non più accettabile.

Nel 2012 la consapevolezza di questi fenomeni è stata accelerata dalla pubblicazione di Bad Pharma, saggio di Ben Goldacre che ha definito con estrema chiarezza le conseguenze per la salute pubblica che emergono dalla mancata pubblicazione o dal reporting selettivo degli outcome nella ricerca sponsorizzata dall’industria del farmaco (4). Questi problemi sono stati documentati per la maggior parte di aree della ricerca: farmacologica e non, di base e applicata, osservazionale e sperimentale, sugli uomini e sugli animali.

Nel 2013 una maggiore consapevolezza su questi temi ha favorito il lancio della campagna AllTrials (5), che chiede di registrare tutti i trial clinici e di pubblicarne tutti i risultati (6).

Nel gennaio 2014 The Lancet ha pubblicato la serie Research: Increasing Value, Reducing Waste (7) documentando che per aumentare il ritorno degli investimenti della ricerca (value) è necessario stabilire priorità più rilevanti (8), migliorare disegno, conduzione e analisi (9), ottimizzare le procedure di gestione e regolamentazione (10), garantire un adeguato reporting (11) e una migliore usabilità della ricerca (12). È stata quindi costituita la REWARD (REduce research Waste And Reward Diligence) Alliance (13) e lanciata la campagna Lancet-REWARD (14) che ha pubblicato il REWARD Statement (box) e le raccomandazioni con relativi indicatori di monitoraggio su cinque aree di potenziali sprechi della ricerca biomedica (figura): rilevanza della ricerca, adeguatezza del disegno dello studio, dei metodi e delle analisi statistiche, efficienza dei processi di regolamentazione e gestione, completa accessibilità ai dati, usabilità dei report.

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PENSARE “LEAN”

Impariamo a pensare in maniera “snella”. Lean, persone e sanità

Introduzione

L’elemento di complessità può essere legato al fatto che le trasformazioni richiedono la revisione di intere fasi di lavoro o di tutto il processo con team impegnati per un intera settimana e spesso per più di una. E’ anche sconvolgente quanto i principi lean vadano in controtendenza rispetto al senso comune – stravolgendo il concetto di economie di scala, di lavoro per lotti e attese etc. Molte di queste assunzioni sono profondamente radicate e spesso errate. Ma la più contro intuitiva di tutte è l’idea che si possa fare di più stressando meno il sistema.

Nella maggior parte delle organizzazioni di qualunque tipo, è dimostrato che per ogni attività che aggiunge valore dal punto di vista del cliente, ce ne sono almeno 9 che non aggiungono valore. Se non si tiene conto di questo, anche se riusciamo a migliorare la componente a valore aggiunto del 50%, complessivamente si avrà un impatto molto piccolo.
• Migliorare solo le componenti a valore aggiunto senza aggredire l’intero processo può non migliorare gran che l’efficienza. Un macchinario più veloce in laboratorio o un trasferimento più veloce del paziente dal Dipartimento di Emergenza al reparto può semplicemente significare che il campione o il paziente attenderà comunque da qualche parte in una fase successiva del processo.
Il Lean focalizza lo sforzo di Miglioramento sugli aspetti che più che contano per i pazienti ed il personale, sulle cause che provocano per loro stress nella loro attività quotidiana, diversamente al miglioramento legato al raggiungimento di standard esterni o obiettivi nazionali che tendono generalmente ad essere espressi in termini sono solo indirettamente connessi al miglioramento dell’assistenza per il paziente.

Lean e persone

Ogni azienda è simile ad un albero. Se voglio raccogliere buoni frutti è inutile che mi ostini a guardare la parte esterna: devo curarne le radici. Se non imparo a fare questo difficilmente raccoglierò i frutti che desidero. E le radici per un’azienda sono le persone.
Per questa ragione nei migliori progetti di miglioramento aziendale è necessario partire da percorsi di Lean Leadership, dando centralità alle persone prima che agli strumenti utilizzati per ottenere i risultati.
Il segreto per far funzionare processi eccellenti è quindi strettamente legato al sistema di Leadership individuale ed aziendale.
Il motivo fondamentale del fallimento di un progetto o del mancato sostenimento nel tempo dei risultati, risiede nelle lacune di Leadership da parte del Top e del Middle Management, dei Project Leader o dei membri del team.
Si preferisce inseguire i problemi invece che prevenirli, gestire stati di crisi piuttosto che rinforzare sistemi e processi in una visione di lungo termine.

In questa brevissima introduzione, Iniziamo a vedere un video sul metodo Toyota e una produzione negli stabilimenti in Emilia Romagna.

In questa linea la Produzione è quadruplicata, negli stessi spazi e quasi con lo stesso numero di addetti, difetti qualitativi ridotti del 90%. Difficile del resto prevedere esiti diversi, considerando che lo stabilimento in questione è Toyota, l’inventore dei metodi di lean production, ora diffusi in tutto il mondo. A Bologna l’assemblaggio dei carrelli elevatori avviene con precisione giapponese, rivisitata e arricchita in “salsa” emiliana. Come ci si organizza per ottenere questi risultati?

Entriamo In Fabbrica.

http://stream24.ilsole24ore.com/video/notizie/in-fabbrica-metodi-toyota-via-emilia/ACohcCqB#anchor_comments

Competenze nascoste

I top manager giocano troppo a nascondino
La competenza è stata nascosta troppo a lungo nei convegni e nella formazione: i board aziendali hanno difeso rendite di posizione e investito poco su se stessi

Quali competenze riescono a far emergere i soliti congressi fini a se stessi? Il capitale umano è fondamentale per lo sviluppo di una cultura del miglioramento continuo? Perché le competenze professionali e dei collaboratori rimango spesso nascoste ed è così complesso metterle in risalto? Perché non siamo cresciuti come speravamo e meritiamo veramente? Una rapida, ma riflessiva, lettura affronta in maniera ampia argomenti che potrebbero riguardare anche il nostro mondo professionale e che ci possono offrire alcuni spunti di riflessione. 

In un mercato come quello attuale dove le organizzazioni sono diventate “liquide” e dove la velocità del cambiamento è dieci volte più grande rispetto a quanto eravamo abituati a vedere sino alla fine degli anni Novanta, è del tutto evidente che la differenza competitiva di un’azienda non è data semplicemente dal know-how (che può essere copiato e/o migliorato) ma dalle persone che vi lavorano e dalla loro capacità di saper prevedere, interpretare e governare questo immenso frullatore globale.
In Italia, in questi ultimi anni, abbiamo assistito alla scomparsa o alla trasformazione di grandi aziende storiche: Indesit o Esselunga, per citare le più eclatanti, oggi non esistono più per come le abbiamo conosciute e tutto questo è coinciso con la scomparsa dei loro leader storici che, in molti casi, ne sono stati anche i fondatori.

Ma come è potuto accadere tutto questo? La risposta è da ricercarsi nella miopia dei board aziendali che, preoccupati a difendere rendite di posizione, non hanno pensato a coltivare le giuste competenze manageriali che gli avrebbero permesso un corretto passaggio generazionale: sì, proprio le famigerate competenze.

Se questo paese ha un gap di leadership a tutti i livelli, un motivo c’è. Infatti per troppo tempo le competenze sono state più oggetto di convegni per le HR o argomento di studio da parte di professori universitari di tutto il mondo. Ma quanto effettivamente hanno fatto da driver nella strategia delle aziende, specialmente italiane? Se si pensa che generalmente l’area Sviluppo Organizzativo – che si occupa proprio delle competenze, sistemi di valutazione, rewarding – è comunemente definita “soft” rispetto alla contrattualistica e al sindacale – che invece costituisce la parte “hard” – allora si riesce a capire come negli anni abbiamo perso competitività.

Infatti la competitività non è semplicemente legata a fattori “hard” quali tecnologia, impianti, strumenti e processi, ma soprattutto alla capacità di “sfornare” sempre nuovi leader che siano capaci di guidare le aziende in questo mercato sempre più complesso, avendo cura della risorsa più importante: le persone.
Ecco che alcune competenze come il “People managing” e lo “Strategic thinking” diventano sempre più attuali e differenzianti in uno scenario come quello che si sta prospettando o che, in molti casi, si è già manifestato.

In un passato abbastanza recente ricoprire posizione di vertice appariva più semplice. Gli ingredienti del successo erano il titolo di studio in accoppiata con l’eventuale master, la fedeltà, l’anzianità di ruolo (vero viatico ad una progressione verticale), una forte competenza tecnica (che ti faceva apprezzare dall’azienda specie a inizio carriera) e un buon network con il vertice (necessario a creare i presupposti per ricoprire poi un ruolo di top).

La crisi economica di questi ultimi anni ha scoperto il vaso di pandora, per cui numerosi top manager per la prima volta si sono trovati ad affrontare nuovamente il mercato del lavoro, scoprendo improvvisamente di essere fuori contesto e fuori mercato.
La verità è che la crisi oltre che distruttiva è stata anche “catartica”. Infatti con la forza di un uragano, ha spazzato via tutto ciò che non era “ancorato a terra saldamente”, mettendo a nudo contraddizioni, sprechi e sovrastrutture. Lo sviluppo di una coscienza comune orientata alla valutazione e all’attenzione verso driver comportamentali alternativi ha reso più fragile la classe manageriale dei baby boomers. Ecco che competenze distintive come il coraggio, inteso come forza di allargare la propria comfort zone e come capacità di mettersi in gioco con strumenti e scenari nuovi (si pensi alla rivoluzione digitale e alla prepotenza con cui i social media sono entrati anche nella vita delle aziende), e il Lateral Thinking, inteso come la capacità di osservare la realtà con interpretazioni fuori dagli schemi e non consuete, hanno sfidato oggi i ruoli di leadership più solidi.

Se i top manager del sistema industriale italiano smetteranno di pronunciare slogan e si focalizzeranno sul serio su una gestione corretta delle competenze personali e dei propri collaboratori, allora riusciremo a vincere la sfida della competitività. In caso contrario ci toccherà fare come il filosofo greco Diogene, girando con una lanterna al buio alla ricerca di un leader.

di Marco SCIPPA, esperto di gestione e sviluppo del personale e Hr director, ‘senzafiltro’, 26 ottobre 2016

Linea Guida: Emorragia post partum 2016

Linea Guida: emorragia post partum 2016 (fonte SNLG Italia)

Le linee guida rappresentano uno strumento utile a garantire il rapido trasferimento delle conoscenze elaborate dalla ricerca biomedica nella condotta clinica quotidiana. Si tratta di raccomandazioni di buona pratica – formulate da panel multidisciplinari di professionisti – in cui trovano opportuna sintesi le migliori prove disponibili in letteratura e le opinioni degli esperti, a beneficio degli operatori sanitari e degli amministratori, per una migliore qualità e appropriatezza dell’assistenza resa al paziente. Le linee guida non offrono degli standard di cura cui riferirsi acriticamente e in maniera decontestualizzata. Al contrario, tali standard devono potersi esprimere, per ogni singolo caso, sulla base delle informazioni cliniche disponibili, delle preferenze espresse dai pazienti e delle altre circostanze di contesto, accuratamente vagliate alla luce dell’expertise dei professionisti sanitari. Per tale ragione, l’aderenza alle linee guida non rappresenta di per sé la garanzia di un buon esito delle cure. In definitiva, spetta alla competenza e al discernimento dei professionisti, in attento ascolto delle istanze particolari e in considerazione dei valori espressi dai pazienti, stabilire quali procedure o trattamenti siano più appropriati per la gestione dei singoli casi clinici. Tuttavia, ogni significativa deviazione dalle raccomandazioni espresse nelle linee guida – in quanto regole di condotta riconosciute, ben fondate e largamente condivise – dovrebbe sempre poter trovare delle motivazioni basate su solide valutazioni di opportunità, argomentate e chiaramente esplicitate nella documentazione clinica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) afferma che l’emorragia del post partum (EPP) è, a livello globale, la prima causa di mortalità e grave morbosità materna.

La condizione è infatti responsabile di circa un quarto delle morti che avvengono in gravidanza, al parto o durante il puerperio (WHO 2012), di cui la gran parte si verifica nei paesi del Sud del mondo (Khan 2006).

Una revisione sistematica (Calvert 2012) riporta una prevalenza di EPP con perdita ematica ≥500 ml globalmente pari al 10,8% (IC 95%: 9,6-12,1). Il dato presenta un’ampia variabilità regionale compresa tra il 7,2% (IC 95%: 6,3-8,1) in Oceania e il 25,7% (IC 95%: 13,9-39,7) in Africa. La stessa condizione presenta una prevalenza dell’8% in America Latina e in Asia e del 13% in Europa e Nord America. La prevalenza di EPP maggiore, con perdita ematica ≥1.000 ml, è invece significativamente più bassa, con una stima globale del 2,8% (IC 95%: 2,4-3,2) (Calvert 2012). Anche per l’EPP grave il continente Africano registra la prevalenza maggiore, pari al 5,1% (IC 95%: 0,3-15,3), seguita dal 4,3% in Nord America e dal 3% in America Latina, Europa e Oceania. L’Asia detiene la prevalenza più bassa della condizione pari al 1,9%. Nelle ultime due decadi molti studi hanno riportato un aumento di incidenza dell’EPP anche nei paesi industrializzati nonostante questa condizione sia storicamente meno frequente nei paesi a sviluppo economico avanzato (Ford 2007, Joseph 2007, Knight 2009, Lutomskj 2012, Mehrabadi 2013, Rossen 2010). Su oltre 8 milioni di parti assistiti negli Stati Uniti tra il 1999 e il 2008, l’incidenza di EPP grave è passata da 1.9 a 4,2 casi per 1.000 parti (Kramer 2013). In Canada, Australia e Stati Uniti d’America l’International Postpartum Hemorrhage Collaborative Group ha rilevato un aumento di incidenza di EPP primaria da atonia uterina tra il 1991 e il 2006 (Knight 2009). In Canada l’EPP (Joseph 2007) è responsabile anche di circa il 50% del totale dei casi incidenti di grave morbosità materna. In Australia è stato stimato che per ogni morte materna si verifichino almeno 80 casi di grave morbosità materna da causa emorragica (Royal Women’s Hospital Victoria 2013).

Epidemiologia dell’emorragia post partum in Italia

In Italia il Ministero della Salute ha sostenuto con continuità, tramite finanziamenti del Centro nazionale per la prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM), una serie di progetti multiregionali coordinati dall’ISS con l’obiettivo di raccogliere dati affidabili e di qualità sulla mortalità e grave morbosità materna. Dal 2015 la sorveglianza ostetrica coinvolge 8 regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia) con una copertura del 73% dei nati del paese. La disponibilità di un sistema di raccolta dati stabile e accurato rappresenta un elemento operativo ineludibile per un monitoraggio delle modalità assistenziali che sia in grado di rilevare sia le buone pratiche che le aree critiche suscettibili di miglioramento, con l’obiettivo di abbandonare la cultura della colpevolizzazione.

Il documento è stato organizzato in due grandi sezioni:

una parte principale che riporta per ciascun argomento di interesse i quesiti formulati dal panel, una breve descrizione di carattere generale dell’argomento, l’interpretazione delle prove e le raccomandazioni per la pratica clinica; la bibliografia è riportata in ordine alfabetico a conclusione di ogni capitolo. Questa parte del documento, che si apre con una breve sezione dedicata alla definizione della emorragia del post partum (EPP), permette al lettore di prendere in esame i singoli aspetti della prevenzione e trattamento dell’EPP e accedere all’interpretazione delle prove e alle raccomandazioni formulate dal panel.

tre appendici che riportano per ciascun argomento di interesse i quesiti formulati dal panel, la descrizione degli studi inclusi, i punti chiave dell’argomento e la descrizione narrativa delle prove. Questa parte del documento permette al lettore di accedere alla descrizione narrativa di tutti gli studi inclusi e utilizzati per lo sviluppo della linea guida. Gli esiti giudicati dal panel rilevanti per i quesiti clinici e le tabelle GRADE in cui le informazioni estratte dalla letteratura sono state tabulate per rendere trasparente il livello della prova di efficacia sono disponibili on-line sul sito SNLG-ISS (http://www.snlg-iss. it), all’indirizzo http://www.snlg-iss.it/lgn_EPP.

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Trasmissione degli agenti infettivi

Trasmissione degli agenti infettivi

La trasmissione di agenti infettivi all’interno dell’ambiente sanitario, richiede tre elementi:

UNA SORGENTE (o RESERVOIR) di agenti infettivi
UN OSPITE suscettibile con una via di ingresso ricettiva per l’agente
UNA VIA DI TRASMISSIONE dell’agente stesso

Sorgenti di agenti infettivi
Gli agenti infettivi trasmessi durante l’assistenza derivano principalmente da sorgenti umane, ma
possono essere implicate anche sorgenti ambientali inanimate. I reservoir umani, includono:

pazienti
personale
altri visitatori

Tali individui fonte possono avere un’infezione attiva, essere in fase asintomatica e/o in periodo di incubazione, oppure possono essere colonizzati in maniera transitoria o cronica da microrganismi patogeni. Anche la flora endogena dei pazienti (batteri residenti del tratto respiratorio o gastrointestinale) può essere sorgente di infezioni associate alle cure sanitarie.

Ospiti suscettibili
Molti individui esposti a microrganismi patogeni non sviluppano mai malattia sintomatica, altri invece vanno incontro a patologia grave e, a volte, a morte. Alcuni individui sono predisposti ad essere colonizzati in maniera permanente o transitoria rimanendo del tutto asintomatici. Altri progrediscono dalla colonizzazione alla malattia sintomatica subito dopo l’esposizione o dopo un periodo di colonizzazione asintomatica. Lo stato immunitario al momento dell’esposizione all’agente infettante, l’interazione tra i patogeni e fattori di virulenza intrinseci all’agente, sono fattori determinanti per l’esito individuale. Caratteristiche dell’ospite, come l’età avanzata e malattie concomitanti (come il diabete), immunodeficienza acquisita (HIV/AIDS), malattie oncologiche e trapianti, possono aumentare la suscettibilità a sviluppare infezioni, così come una varietà di farmaci che alterano la normale flora batterica (agenti antimicrobici, antiacidi, corticosteroidi, terapia antirigetto, chemioterapici, e farmaci immunosoppressori). Le procedure chirurgiche e la terapia radiante danneggiano le difese della cute e organi e sistemi colpiti. Dispositivi medici a permanenza, come cateteri vescicali, tubi endotracheali, cateteri venosi centrali e arteriosi e impianti sintetici, facilitano l’insorgenza di infezioni correlate all’assistenza permettendo ai potenziali patogeni di bypassare le difese locali che dovrebbero solitamente impedirne l’accesso e fornendo una superficie su cui si sviluppa un biofilm che può facilitare l’aderenza dei microrganismi e proteggere dall’attività antimicrobica. Alcune infezioni associate a procedure invasive sono il risultato di trasmissioni all’interno della struttura assistenziale; altre originano dalla flora endogena del paziente.

Modalità di trasmissione
Diverse classi di patogeni possono causare infezione, inclusi batteri, virus, funghi, parassiti e prioni. Le modalità di trasmissione variano in base al tipo di microrganismo e molti agenti infettivi possono avere più di una via di trasmissione: alcuni possono essere trasmessi principalmente tramite contatto diretto o indiretto (Herpes Simplex Virus, Virus Respiratorio Sinciziale, Staphylococcus Aureus), altri tramite droplet (Virus Influenzale, Bordetella pertussis), o per via respiratoria (Mycobacterium tuberculosis). Altri agenti infettivi come quelli trasmessi per via ematogena ( Virus Epatite B e C e HIV) sono trasmessi raramente in ambito assistenziale per via percutanea o in caso di mucose non integre. E’ importante sapere che non tutte le infezioni sono trasmesse da persona a persona.

Trasmissione per contatto
La più comune via di trasmissione, la trasmissione per contatto, si divide in due sottogruppi:

Trasmissione per contatto diretto: la trasmissione diretta avviene quando i microrganismi passano da un persona infetta ad un’altra, senza un intermediario contaminato, sia esso oggetto o persona.

Trasmissione per contatto indiretto: la trasmissione indiretta prevede il passaggio di un agente infettivo attraverso un intermediario contaminato, sia oggetto o persona. In assenza di una sorgente nota è difficile determinare come avvenga la trasmissione indiretta. Le mani contaminate del personale sanitario contribuiscono in modo importante alla trasmissione per contatto indiretto. L’abbigliamento, la divisa, i camici di laboratorio, o i sopracamici per l’isolamento, utilizzati dal personale come dispositivi di protezione personale, possono contaminarsi con potenziali patogeni dopo l’assistenza ad un paziente infetto o colonizzato da un agente infettivo (es. MRSA, VRE, Clostridium difficile). Sebbene gli indumenti contaminati non sono stati implicati direttamente nella trasmissione, esiste il rischio potenziale di trasferire agenti infettivi al paziente successivo se questi sono sporchi.

Trasmissione attraverso goccioline di saliva (droplet)
Il droplet è prodotto quando una persona infetta tossisce, starnutisce o parla, o durante procedure come l’aspirazione o l’intubazione endotracheale, l’induzione della tosse per manovre fisioterapiche, e la rianimazione cardiopolmonare. Tradizionalmente il droplet è riferito a particelle di grandezza superiore a 5 mm. Studi hanno dimostrato che la mucosa nasale, congiuntivale, e meno frequentemente quella del cavo orale, sono porte suscettibili per l’ingresso dei i virus respiratori (questo è il motivo per cui per la prevenzione della trasmissione con questa modalità è raccomandata la mascherina). La distanza massima per la trasmissione attraverso droplet è tuttora sconosciuta. Storicamente l’area definita “di rischio”, comprendeva una distanza uguale o inferiore a circa 90 cm. attorno al paziente. Tuttavia, è possibile che la distanza raggiunta dal droplet sia superiore a tale soglia e dipenda dalla velocità e dal meccanismo respiratorio con il quale gli agenti fuoriescono dalla sorgente, dalla densità delle secrezioni respiratorie, da fattori ambientali, come temperatura e umidità, e dalla capacità dell’agente patogeno di mantenersi infettante a certe distanze. La distanza uguale o inferiore a circa 90 cm dal paziente è quindi considerata come un esempio di cosa si intenda per “breve distanza dal paziente” e non dovrebbe essere considerata l’unico criterio sul quale basarsi per decidere sull’utilizzo della mascherina. E’ prudente indossare la mascherina quando si è a circa 180-300 cm. di distanza dal paziente, o quando si entra nella stanza di degenza, specialmente quando è probabile l’esposizione ad un’alta virulenza. I microrganismi trasmessi attraverso droplet non conservano la capacità di infettare a lunga distanza e quindi non richiedono speciali sistemi di aerazione e ventilazione.

Trasmissione per via aerea
La trasmissione aerea si verifica attraverso la disseminazione sia dei nuclei del droplet respiratorio o delle piccole particelle di dimensioni che consentano la inspirazione di corpuscoli contenenti agenti infettivi, che rimangono infettivi nel tempo e nella distanza (es. spore di Aspergillus spp, e Mycobacterium tuberculosis). I microrganismi condotti in questo modo, possono venire dispersi anche a lunga distanza, attraverso correnti aeree e possono essere inalati da persone suscettibili che non hanno avuto un contatto faccia-a-faccia con l’individuo infetto. La prevenzione della diffusione dei patogeni trasmessi per via aerea richiede l’uso di particolari trattamenti dell’aria, e di sistemi di ventilazione (stanza di isolamento per le infezioni respiratorie) per rimuovere in sicurezza l’agente infettivo. Oltre alla stanza per isolamento delle infezioni respiratorie, per il personale assistenziale che entra nella stanze per isolamento delle infezioni respiratorie, per la prevenzione della trasmissione di agenti come il Mycobacterium tuberculosis, è raccomandata la protezione delle vie respiratorie con una protezione respiratoria N95 (o superiore) certificata CE. Alcuni agenti infettivi trasmissibili per via aerea provengono dall’ambiente e solitamente non comportano una trasmissione da persona a persona. Le spore di funghi ambientali (p. es. Aspergillus spp) sono molto diffuse nell’ambiente e possono causare malattia in pazienti immunocompromessi che inalino le spore aerosolizzate (p. es. tramite polveri provenienti da cantieri edili).

Altre sorgenti di infezione
La trasmissione di infezioni da altre sorgenti diverse dagli individui infetti, comprende quelle associate a fonti o veicoli ambientali comuni (p.es. cibo contaminato, acqua, o medicinali, come i liquidi endovenosi). Nei setting sanitari può anche verificarsi la trasmissione attraverso vettori di agenti infettivi da zanzare, mosche, topi, ed altri animali nocivi. NB: Sebbene siano stati ritrovati Aspergillus spp. negli impianti idrici ospedalieri, il ruolo dell’acqua come serbatoio per pazienti immunosoppressi resta incerto.

Bibliografia e approfondimento

  1. Centers for Disease Control and Prevention – “Guidelines for isolation Precautions: Preventing Transmission of Infectious Agents in Healthcare Setting 2007”
  2. Centers for Disease Control and Prevention – “Management of Multidrug-Resistant Organisms in Health Care Settings, 2006”

Clostridium difficile: indicazioni operative

Diarrea associata a clostridium difficile: quali livelli di attenzione

Il Clostridium difficile è un bacillo sporigeno anaerobio gram-positivo, appartenente alla famiglia Bacillaceae, che produce due tossine: tossina A e tossina B, responsabili dei quadri clinici associati.

Il Paziente colonizzato da Clostridium difficile è tendenzialmente asintomatico che alberga nell’intestino ceppi di C. difficile (2-3% dei soggetti sani, fino al 20% dei pazienti ospedalizzati) e che presenta diarrea, definita da una varietà di criteri (es.: almeno 6 scariche di feci acquose nelle ultime 36 ore; 3 scariche di feci non formate in 24 ore per 2 giorni o 8 scariche di feci non formate in 48 ore).

La diffusione è ubiquitaria. E’ la causa più comune di diarrea nosocomiale e rappresenta il 15-25% di tutti gli episodi di diarrea associata ad antibiotici (AAD), che può complicarsi con quadro di colite pseudomembranosa, megacolon tossico, perforazione del colon, sepsi e (raramente) morte. La colite da C. difficile è più frequente nei soggetti anziani, defedati, sottoposti a trattamento antibiotico e a interventi chirurgici sull’apparato digerente e in quelli con lunga ospedalizzazione. C. difficile rappresenta uno dei maggiori patogeni nosocomiali sia in pazienti ricoverati in strutture per acuti sia in residenti in lungodegenze; in tali ambiti sono state riportate diverse epidemie e cluster. La colonizzazione intestinale da parte del C. difficile può essere di provenienza endogena e più frequentemente esogena. Solo il 2-3% degli adulti sani sono portatori asintomatici di C. difficile, mentre l’incidenza di portatori asintomatici nei bambini di età inferiore a 1 anno può arrivare sino al 70%. Il tasso di colonizzazione negli adulti ospedalizzati e nei residenti delle lungodegenze varia ampiamente e i tassi di incidenza di diarrea causata da C. difficile in ospedale variano da 1 a 30 casi ogni 1000 dimessi. il serbatoi principale è l’uomo (saprofita intestinale) e l’ambiente esterno (in forma sporigena).

Il clostridium difficile può essere trasmesso attraverso le mani del personale sanitario che ha avuto contatto con persone infette o colonizzate o con superfici ambientali contaminate, oppure attraverso strumentazione contaminata (ad es. endoscopi) o, da paziente a paziente, attraverso la contaminazione delle superfici (durante eventi epidemici, considerare il ruolo della contaminazione ambientale e di articoli contaminati come le sedie igieniche, le vasche da bagno e i termometri). L’acquisizione nosocomiale e la trasmissione crociata è stata dimostrata dalla tipizzazione molecolare e fingerprinting. L’origine endogena dell’infezione è ritenuta rara data la bassa prevalenza di portatori asintomatici. Il periodo di incubazione è variabile, in genere la diarrea si manifesta entro una settimana dall’infezione oppure il paziente rimane asintomatico sino all’esposizione ad antibiotici. Altre volte la diarrea compare alcune settimane dopo la loro sospensione. Le spore presenti nelle feci possono sopravvivere per più di 70 giorni.

 Accertamenti diagnostico

La diagnosi può essere effettuata mediante endoscopia (colite pseudomembranosa), più semplicemente mediante indagini microbiologiche sulle feci. Ricerca dell’antigene nelle feci mediante test di agglutinazione al lattice immunocromatografico – test rapido (< 1 ora) con sensibilità >90%. Non definisce, tuttavia, se il ceppo è tossigenico: deve essere associato alla ricerca della tossina A e/o B o di entrambe. Ricerca della tossina A e/o B o di entrambe mediante EIA – è il test più praticabile di routine (standard diagnosis) in quanto rapido, di basso costo, con specificità >90%. Sono possibili falsi negativi se non è effettuato entro 2 ore dalla raccolta delle feci o se effettuato su feci congelate (instabilità delle tossine). La determinazione solo della tossina A può non evidenziare casi rari di diarrea associata a C. difficile da ceppi produttori solo di tossina B. Le ultime linee guida in termini di diagnosi di CDAD, sia per ottenere livelli ottimali di sensibilità e specificità, sia per ottimizzare il rapporto costo-utilità, indicano di effettuare uno screening iniziale mediante la ricerca del GDH (glutammato deidrogenasi) che individua sia ceppi di Cd tossinogenici che non tossinogenici, e successivamente solo sui campioni positivi, la ricerca delle tossine A e B mediante test immunocromatografico.

Effettuare prontamente la ricerca per le tossine di CD in tutti i casi di diarrea nosocomiale e per tutte le persone che sono ricoverate con diarrea acquisita fuori dall’ospedale; la ricerca non è raccomandata nei soggetti e nei contatti asintomatici, e nei bambini di età < 1 anno. Sospendere la ricerca delle tossine di CD su campioni fecali non appena questo viene diagnosticato.
La ricerca non va ripetuta se positiva (alta specificità) o per stabilire l’avvenuta o meno guarigione (solo parametri clinici). Soltanto quando si sospetta una recidiva di infezione da CD, ripetere i campioni ed escludere altre cause possibili di diarrea. Eseguire i test per la ricerca delle tossine solo su campioni di feci ottenute in corso di diarrea (campioni di feci non formate) a meno che non sia presente un ileo paralitico.

E’ fondamentale adottare precauzioni standard e per contatto. Le precauzioni di isolamento possono essere revocate dopo 48 di assenza di sintomi e dopo il normalizzarsi della peristalsi intestinale. Per le modalità operative gestionali vedere “Misure per la prevenzione e il controllo”.

La normale disinfezione ambientale nelle stanze dei pazienti con CDAD deve essere effettuata con agenti sporicidi, ideali sono gli agenti contenenti cloro (almeno con 1000 p.p.m. di cloro attivo disponibile).

I reparti ospedalieri devono essere puliti con regolarità (almeno una volta al giorno), concentrandosi particolarmente sulle superfici toccate più frequentemente.
Il personale addetto alle pulizie deve essere immediatamente avvisato di una contaminazione ambientale con feci. Si deve provvedere al più presto alla pulizia di tale zona. Per tempi e modi di attivazione della Ditta in gestione appaltata, qualora necessario, seguire le indicazioni aziendali correnti.

I bagni e gli strumenti quali comode o padelle che vengono usualmente contaminate da feci, rappresentano una fonte di spore di CD, pertanto devono essere puliti scrupolosamente. Le comode e le padelle pulite devono essere conservate in un luogo asciutto.

Dopo la dimissione di un paziente con CDAD, le stanze devono essere accuratamente pulite e disinfettate.

Misure per la prevenzione e il controllo

Assicurare gli appropriati e precoci test diagnostici nei casi di diarrea acuta non altrimenti spiegata (soprattutto se associata a terapia antibiotica). La precedente esposizione ad antibiotici è il principale fattore di rischio per la malattia; la misura di controllo più importante per ridurre il rischio è quindi la gestione corretta degli antibiotici. La prescrizione antibiotica (frequenza di utilizzo, durata della terapia e principio attivo) andrebbe rivalutata il prima possibile ed andrebbero evitate accuratamente le molecole ad alto rischio di sviluppare una CDAD (ad esempio cefalosporine, fluorochinoloni, clindamicina) nei pazienti a rischio. Utilizzare questi antibiotici solo quando clinicamente necessario.

Sospendere ogni terapia antibiotica, non correlata ad una infezione da Clostridium difficile, in pazienti con CDAD non appena possibile.

I pazienti con CDAD rappresentano una fonte di diffusione del patogeno ad altri, pertanto, quando possibile, devono essere isolati in stanze singole. Non è indicato il trasferimento presso l’U.O. Malattie Infettive.

Si deve assegnare un apposito bagno o una comoda per i pazienti con CDAD. Se non è possibile effettuare l’isolamento in stanza singola, si deve adottare l’isolamento in coorte; I pazienti ricoverati nella coorte devono essere gestiti da personale in modo dedicato per minimizzare il rischio di infezioni crociate ad altri pazienti. Per modo dedicato si può intendere una modalità di gestione dell’assistenza del paziente che escluda o ponga particolare attenzione ad azioni che generino promiscuità.

Chiunque entri nella stanza/ambiente del paziente, compresi gli operatori sanitari ed i visitatori, deve essere informato sulle manifestazioni cliniche, sulle modalità di trasmissione e sulla epidemiologia della CDAD.

Le precauzioni di isolamento possono essere revocate dopo 48 di assenza di sintomi e dopo il normalizzarsi della peristalsi intestinale.

Oltre all’utilizzo dei guanti, è raccomandata una meticolosa igiene delle mani con acqua e sapone, da parte di tutto lo staff, dopo il contatto con fluidi corporei o dopo ogni potenziale contaminazione delle mani avvenuta durante la cura dei pazienti con CDAD diagnosticata.
L’azione fisica di frizione e risciacquo (lavaggio mani) è l’unico modo per rimuovere le spore dalle mani. Il lavaggio delle mani è inoltre raccomandato dopo la rimozione di guanti e sopracamici utilizzati per la cura dei pazienti.

Il lavaggio delle mani dovrà essere effettuato con sapone liquido per almeno 15 secondi e con tecnica corretta. Va considerato che nessun prodotto, alle concentrazioni utilizzabili per le mani, è efficace contro le spore di C. difficile (uso dei guanti!!), ribadendo perciò che il lavaggio ha soprattutto un’azione meccanica di riduzione delle spore. E’ necessario un corretto utilizzo dei lavandini per non re-infettarsi (chiudere il rubinetto con la carta, dopo essersi lavati). Non vi sono indicazioni sull’utilizzo di saponi contenenti sostanze antisettiche.

Anche il paziente dovrà lavarsi le mani con sapone liquido, specialmente dopo l’uso del bagno e prima di assumere alimenti. Dovrà essere indicato il lavaggio delle mani anche ai visitatori. La frizione con soluzioni alcoliche non deve essere l’unica modalità di igiene delle mani se si hanno contatti con pazienti con infezione da CD sospetta o accertata.

Gli operatori devono indossare i guanti durante i contatti con i pazienti con CDAD e anche quando si viene a contatto con fluidi corporei e/o con superfici inanimate potenzialmente contaminate (incluse le immediate vicinanze del paziente). Indossare i guanti prima di entrare nella stanza; cambiarli dopo contatto con materiale visibilmente contaminato; lavaggio delle mani dopo rimozione.

Sopracamici protettivi devono sempre essere utilizzati nella gestione di pazienti con diarrea. (Indossare prima di entrare nella stanza e per tutta la permanenza nella stanza).

Valutare l’opportunità di fornire dispositivi di protezione personale (guanti e sopracamici) anche ai visitatori.

L’uso di materiale monouso, per quanto possibile, deve essere preferito. I dispositivi medici riutilizzabili e le attrezzature al termine dell’utilizzo dovranno essere sottoposti ad idonei trattamenti di decontaminazione, pulizia, disinfezione con agenti sporicidi o, se possibile, sterilizzazione. Per quanto possibile, riservare ad uso personale del singolo Paziente durante la degenza anche i dispositivi riutilizzabili.

Evitare l’uso promiscuo di dispositivi medici dedicati (es. termometro, fonendoscopio, padella, pappagallo, ecc.). Si ricorda l’importanza di garantire un adeguato trattamento igienico dei supporti per padelle monouso tra utilizzi successivi, criterio peraltro da adottare in tutte le Unità Operative e Servizi indipendentemente dalla tipologia di paziente e dalla patologia da cui è affetto.

Tutti gli effetti letterecci, poiché da considerarsi potenzialmente infetti, devono essere smaltiti come materiale infetto (per le modalità attenersi ai documenti aziendali).

Approfondimento:

  • Agenzia Sanitaria Regionale – Dossier 123-2006 “Epidemie di infezioni correlate all’assistenza sanitaria – Sorveglianza e controllo”
  • “Infection control measures to limit the spread of Clostridium difficile.” – Clinical Microbiology and Infection, Vol. 14, Supplement 5, Maggio 2008
  • Clinical practice guidelines for Clostridiun difficile Infection in Adults: 2010 Update by the Society for Healthcare Epidemiology of America (SHEA) and the Infectious Diseases Society of America (IDSA)

VAP. Polmonite associata alla ventilazione meccanica

La VAP : polmonite associata alla ventilazione meccanica

recuperiamo ancora un altro interessante articolo, nella quale si affronta compiutamente un argomento degno  di analisi e studio. La VAP rappresenta una  attività di studio e ricerca che interessa il team multiprofessionale e che rientra nei bundles di cui abbiamo parlato in una nostra news. Read more…

Care bundle

I bundle per il miglioramento della pratica clinica

Approfondiamo un argomento certamente interessante ed utile oggi per molti motivi, di cui, ultimamente, anche in Italia se ne parla molto di più, in particolare per la riduzione ed il controllo delle infezioni correlate all’assistenza. Un articolo ben scritto con un approfondimento bibliografico molto interessante e ne vogliamo dare una massima diffusione e visibilità.

Un bundle è un insieme contenuto (da 3 a 5) di interventi, comportamenti e/o pratiche evidence-based, rivolti ad una specifica tipologia di pazienti e setting di cura, che, applicati congiuntamente e in modo adeguato, migliorano la qualità e l’esito dei processi con un effetto maggiore di quello che gli stessi determinerebbero, se ogni strategia fosse attuata separatamente(1).
Le caratteristiche principali del bundle sono(2):

  1. è regolato dalla legge del tutto o nulla: questo significa che un bundle ha successo, cioè l’obiettivo cercato si raggiunge nella misura massima possibile, solo se tutte le componenti del bundle vengono applicate
  2. deve essere facilmente gestibile: è composto da un numero contenuto di strategie, al massimo 5, attuabili in maniera sostenibile nella specifica realtà assistenziale, facili da memorizzare, semplici da monitorare
  3. prevede solo alcune di tutte le possibili strategie applicabili a quella determinata condizione clinica, selezionate tra quelle più solide in termini di evidenze scientifiche, da farle considerare uno standard di qualità: pochi elementi sui quali è possibile esercitare un controllo e da cui derivi un sicuro vantaggio in termini di esito delle cure; questo non comporta l’esclusione di altre pratiche evidence-based, che tuttavia non fanno parte del bundle
  4. gli elementi del bundle sono tra loro relativamente indipendenti: per cui se una delle pratiche non viene applicata su un dato paziente (es.: se esiste una controinidicazione clinica), l’applicazione delle altre pratiche previste dal bundlenon ne viene inficiata
  5. la sua compliance, definita come la percentuale di pazienti ai quali vengono applicate tutte le strategie del bundle, deve essere perfettamente misurabile

Il concetto di bundle è stato sviluppato a partire dal 2001 dall’Institute for healthcare Improvement (IHI)(13) per aiutare gli operatori sanitari ad offrire con maggiore affidabilità la migliore cura a pazienti sottoposti a particolari trattamenti ad alto rischio. Si cominciò a lavorare con i bundle sui pazienti ricoverati in rianimazione, sottoposti a ventilazione invasiva o portatori di linee centrali(14,15). Da allora i bundle sono stati impiegati quali strumenti di miglioramento in diverse specialità mediche e chirurgiche, non più solo in area critica, e non più solo per le ICA (come la sepsi grave), ma anche per altre condizioni cliniche (come lo scompenso di cuore o l’arresto cardiaco in ospedale). Attualmente si tende a parlare in maniera più ampia di “care bundle”, cioè programmi di cura attuati attraverso l’impiego dei bundle.

I bundle:
forza dell’ evidenza delle strategie che compongono il bundle(4)
Quando viene pianificato un sistema di care bundles, ogni aspetto deve essere ben definito e basato su prove supportate da almeno una review sistematica di studi clinici ben progettati randomizzati controllati (RCT), oppure su dati di almeno un RCT ben progettato.

indicatori di qualità dell’ assistenza erogata(7,8)
Le linee guida basate sull’evidenza sebbene siano importanti documenti di riferimento non sempre hanno un impatto elevato ed apprezzabile sul modificare i comportamenti al letto del malato. Quando i cambiamenti arrivano, tendono ad essere sempre molto lenti. Tuttavia le linee guida sono importanti per creare indicatori di qualità. I concetti di bundle e care bundle derivano dalla consapevolezza che, non essendo le linee guida sempre seguite, l’assistenza sanitaria è spesso dipendente dalle conoscenze, dalle motivazioni, dalle competenze, dalle abitudini dei singoli clinici e dalle risorse dei diversisetting, con il risultato che solo circa il 50% dei pazienti riceve le cure raccomandate(3). Dal momento che i bundle sono derivati da linee guida basate sull’evidenza, essi possono essere predittivi di miglioramento del processo purchè le strategie siano da un lato evidence-based e dall’altro applicate tutte ad ogni paziente ogni volta. Pertanto, essi nascono dalla teoria che quando la compliance viene misurata per un gruppo di elementi connessi al processo di cura, il lavoro di gruppo e la collaborazione richiesti, per integrare l’applicazione di tutti gli elementi del bundle, determinano un’adesione più affidabile che l’adozione delle medesime misure in maniera isolata(13). Non c’è alcuna innovazione intrinseca nelle pratiche proposte dai bundle: la novità, che è la chiave del loro successo, risiede nella metodologia di applicazione, che deve essere assolutamente coerente e affidabile.

promuovono la partecipazione dei professionisti
I bundle sono descrittivi e non prescrittivi, in modo da consentirne la contestualizzazione a livello locale da parte dei professionisti clinici: questo determina il coinvolgimento consapevole, il confronto costruttivo e la partecipazione attiva dei professionisti al progetto di miglioramento.
Promuovere l’adozione di un bundle introduce nuove dinamiche positive nell’organizzazione del lavoro, che necessita di acquisire una dimensione multi-disciplinare e di forte integrazione tra tutti i soggetti coinvolti nel progetto di miglioramento.

migliorano la qualità dell’assistenza
esiste evidenza consolidata in letteratura che i bundle si sono dimostrati efficaci nel modificare in modo positivo l’affidabilità delle cure prestate ai pazienti e nel prevenire outcome sfavorevoli(16).
I vantaggi concettuali del bundle e che possono agire come fattori promuoventi sono(6):

  • semplificano le decisioni
  • riducono le omissioni e gli errori nel ragionamento medico
  • promuovono la cura obiettivo-orientata
  • promuovono soluzioni coerenti: la strutturazione dei processi di cura facilita la coerenza nella gestione delle condizioni cliniche
  • promuovono, attraverso la valutazione della compliance al bundle, modifiche nel comportamento al letto del malato.

 

I bundle: come introdurli e consolidarne l’uso
Considerato che i bundle sono efficaci nel produrre miglioramenti in ambiti critici dell’assistenza diventa un imperativo morale, quanto meno è necessario valutare oggettivamente la possibilità di introdurli nelle nostre realtà assistenziali.
Parte del successo nell’adozione e applicazione di un bundle da parte di una comunità di professionisti risiede certamente nella sua “ergonomia”, valutata secondo i principi di applicabilità nello specifico contesto, semplicità nella memorizzazione delle azioni e dimensione dell’impatto delle stesse sull’organizzazione.
Questi elementi vanno tenuti in considerazione da parte delle Direzioni sanitarie o dagli esperti di qualità nel momento in cui effettuano la valutazione di introdurre un nuovo bundle.
Una volta selezionato il bundle idoneo, per assicurarne un’efficace applicazione esso va introdotto e ne va consolidato l’utilizzo attraverso una metodologia validata.
Questo processo va assolutamente pianificato e governato dalle Direzioni sanitarie: consegnare alle singole realtà assistenziali il manualetto delle azioni del bundle, demandandone a loro l’implementazione, vuol dire candidarsi ad un sicuro insuccesso.
Il processo di cambiamento deve necessariamente partire dalla scelta accurata di un ambiente di test: una piccola dimensione rappresentativa dei pazienti / problemi clinici / setting assistenziale oggetto delle raccomandazioni del bundle scelto, selezionata tra quelle a maggiore probabilità di compliance, per la presenza di un gruppo inter-disciplinare di professionisti motivati a promuovere il cambiamento. Solo dopo aver consolidato il modello in una realtà piccola sarà possibile prefiggesri l’obiettivo di estendere il bundle agli ulteriori contesti di applicazione.
Nella creazione del gruppo multi-disciplinare vanno coinvolti tutti i professionisti interessati (medici, infermieri, fisioterapisti, OSS), nessuno va tenuto fuori, inizialmente aggregando le persone più motivate, che, quindi, cooperino propositivamente alla modifica dei comportamenti. Ormai numerose esperienze indicano che la chiave del successo in termini di esiti dei bundle risiede, oltre che nel tipo di pratiche selezionate, anche nel lavoro di squadra, di gruppo: si parla di “approccio collaborativo in rete” e di “metodi di implementazione attiva”(17). Va individuato un soggetto (o più soggetti) che sia autorevolmente riconosciuto dal gruppo, e che legittimi da un punto di vista tecnico-professionale l’iniziativa, che sia di sprone al lavoro, tiri le fila quando i risultati non sono confortanti. Con il gruppo di lavoro i promotori del progetto (Direzione sanitaria, struttura qualità), dovranno condividere e contestualizzare le pratiche del bundle, analizzare e possibilmente misurare la situazione attuale, definire gli obiettivi e i relativi indicatori, che saranno oggetto di misurazione quotidiana, validare gli strumenti operativi (checklist, reminder, poster), standardizzare, con interventi formativi strutturati, il livello di conoscenze e competenze relative alle pratiche del bundle e alla metodologia di miglioramento scelta.

A proposito della fase di formazione strutturata, dalla letteratura provengono diverse indicazioni a favore dell’efficacia di programmi educativi e team multi-disciplinari rispetto all’applicazione di azioni di contrasto alle infezioni associate all’assistenza. Essa va accompagnata dalla selezione e/o elaborazione di materiali che favoriscano la memorizzazione e la verifica delle azioni da eseguire: pieghevoli, memo tascabili, reminder al letto del paziente, segnali ambientali di alert (es.: bollino colorato che indica l’inclinazione corretta del letto nel bundle VAP).
Le realtà assistenziali differiscono notevolmente le une dalle altre, e, dal momento che i bundle, come abbiamo visto, richiedono un ripensamento delle attività e dei percorsi clinico-assistenziali, è impossibile dare la ricetta universale per ogni contesto. Ogni realtà che decida di realizzare un bundle deve trovare il proprio modelforimprovementmodo, utilizzando e applicando con rigore un metodo di miglioramento. Esistono numerosi metodi per migliorare l’affidabilità dei processi e gli esiti. IHI, sin dalle prime esperienze sui bundle del 2001, promuove l’utilizzo del Model for Improvement sviluppato da Associates in Process Improvement(18), come quadro per guidare il lavoro di miglioramento. Il Modello per il miglioramento è uno strumento semplice ma potente per accelerare il miglioramento stesso. Può però coesistere con altri modelli di cambiamento già adottati dalle organizzazioni. Esso pone innanzitutto i professionisti dinanzi a 3 domande, cui possiamo dare le conseguenti risposte:

  • Cosa vogliamo realizzare?

Ridurre i danni e migliorare la cura del paziente e l’affidabilità dei processi di cura.

  • Come facciamo a capire che stiamo cambiando in meglio?

Le 2 dimensioni da misurare per capire se i cambiamenti stanno portando ad un miglioramento sono la percentuale dicompliance del tipo tutto-o-niente al bundle ed i risultati di esito specifici.

  • Quali sono i cambiamentiche si tradurranno in un miglioramento?

I cambiamenti effettivamente dotati di potenziale efficacia includono la definizione di obiettivi individuati e verificati quotidianamente, attraverso gruppi multi-disciplinari, il debriefing, l’utilizzo di checklist, la standardizzazione e condivisione / co-localizzazione di risorse (ad esempio, il carrello per le vie centrali).
Una volta che il gruppo di lavoro avrà risposto a queste domande, andrà a collaudare le modifiche in maniera progressiva, inizialmente su piccola scala (anche solo su un paziente), utilizzando i cicli Plan Do-Study-Act – PDSA) e poi man mano su scala più vasta. E’ importante partire con piccoli numeri di pazienti, per gestire in maniera efficace, tempestiva e costruttiva le criticità che certamente si incontreranno nel tentativo di modificare comportamenti e organizzazione del lavoro connessi all’assistenza.
Il PDSA parte dall’assunto che per il raggiungimento del massimo della qualità sia necessaria la costante interazione tra progettare, attuare, misurare e modificare. Le 4 fasi devono ruotare costantemente, tenendo come criterio principale la qualità.

Schematicamente la sequenza logica dei 4 punti è la seguente:

  1. PPlan. Pianificazione
  2. DDo. Esecuzione del programma
  3. SStudy. Raccolta dei risultati
  4. AAct. Azione per rendere definitivo e/o migliorare il processo

 

L’applicazione di tale modello consente di verificare se avvengano dei cambiamenti nel contesto di pdsalavoro e di implementare un cambiamento su larga scala, solo dopo aver testato un miglioramento, ridefinito con successivi test del ciclo PDCA, su piccola scala. I professionisti verificano iterativamente con il PDSA le modifiche introdotte e le correggono di conseguenza, finché non siano in grado di produrre processi affidabili che portino a risultati migliori.
Dopo la prova di un cambiamento su piccola scala, imparando da ogni ciclo di test, una volta validato il cambiamento attraverso parecchi cicli PDSA, l’organizzazione può estendere l’applicazione del bundle a contesti più ampi (intero reparto, più reparti analoghi, nella stessa o in più aziende). L’introduzione delle azioni di miglioramento determina un cambiamento permanente al modo di erogare l’assistenza, cioè può richiedere anche profondi cambiamenti nell’organizzazione, che possono interessare la documentazione, le politiche scritte, le politiche del personale, la formazione, gli aspetti dell’infrastruttura dell’organizzazione, che possono non essere emersi nella fase di test. Pertanto, anche nel passaggio dall’ambiente di test all’organizzazione generale è necessario utilizzare cicli di PDSA.
Introdurre un care bundle vuol dire modificare comportamenti appresi, spesso radicati e consolidati in una realtà assistenziale: solo il monitoraggio continuo, con rinforzo positivo dei miglioramenti acquisiti, può trasformare un bundle in un automatismo.
Il PDSA, pertanto, è utile nel promuovere una cultura della qualità tesa al miglioramento continuo dei processi e all’utilizzo ottimale delle risorse e può servire efficacemente a diffondere, implementare e valutare un sistema care bundles. Sintetizzando, l’introduzione di un bundle dovrà quindi prevedere:

  1. una dichiarazione ufficiale di impegno sottoscritto dal team clinico (definizione dell’obiettivo, condivisione,engagement)
  2. un diagramma causa-effetto che descriva la pratica ottimale e che possa essere usato anche per analizzare le cause di non conformità rispetto agli standard
  3. procedure operative standard per il bundle, inclusi specifici criteri
  4. una griglia per la raccolta di dati, finalizzata a supportare la fase di analisi e valutazione della compliance di adesione
  5. l’evidenza della spiegazione del bundle al personale clinico (fase informativa / formativa strutturata).

 

Riferimenti citati nel testo

  1. Resar R, Pronovost P, Haraden C, Simmonds T Rainey T, Nolan T. Using a bundle approach to improve ventilator care processes and reduce ventilator-associated pneumonia. Jt Comm J Qual Patient Saf. 2005;31:243-248.
  2. Five million lives campaign. Institute for Healthcare Improvement, 2008.
  3. Resar RK. Making noncatastrophic healthcare processes reliable: learning to walk before running in creating high-reliability organizations. Health Serv Res 2006; 41(4 (Part II)):1677–1689.
  4. Aboelela SW et al: effectiveness of bundled behavioural interventions to control healtcare-associated infections: a systematic review of the literature J.Hospital Infect 2007;6:101-108.
  5. Aragon D, Sole ML. Implementing best practice strategies to prevent infection in the ICU. Crit Care Nurs Clin North Am. 2006;18:441-452.
  6. Rello J. Chastre J. Cornaglia G.: A European care bundle for prevention of ventilator-associated pneumonia  J Crit Care 2011,26:3-10.
  7. Cinel I, Dellinger RP. Guidelines for severe infections: are they useful? Curr Opin Crit Care. 2006;12(5):483-488.
  8. R. Phillip Dellinger, Sean R. Townsend Point: Are the Best Patient Outcomes Achieved When ICU Bundles Are Rigorously Adhered To? YesBest Outcomes When ICU Bundles Used? Yes Chest. 2013;144(2):372-374.
  9. Rello J, Lorente C et al: Perchè I medici non seguono le linee guida evidence-based per la prevenzione della pulmonite associata a ventilazione: un sondaggio basato su le opinioni di un pool internazionale di intensivisti. Chest 2002,122:656-661.
  10. Caban et al: Prchè I medici seguono le linee guida evidence-based? Un quadro per il miglioramento. JAMA 1999, 282:1458-1465.
  11. Fong JJ, Cecere K, Unterborn J, Garpestad E, Klee M, Devlin JW. Factors influencing variability in compliance rates and clinical outcomes among three different severe sepsis bundles. Ann Pharmacother. 2007;41:929-936.
  12. Institute for  Healthcare improvement “What is a bundle?”http://www.ihi.org/knowledge/Pages/ImprovementStories/WhatIsaBundle.aspx (ultimo accesso 01.12.2013)
  13. Resar R, Griffin FA, Haraden C, Nolan TW. Using Care Bundles to Improve Health Care Quality. IHI Innovation. Series white paper. Cambridge, Massachusetts: Institute for Healthcare Improvement; 2012. (Available on www.IHI.org)
  14. How-to Guide: Prevent Ventilator-Associated Pneumonia. Cambridge, MA: Institute for Healthcare Improvement; 2012. Available at: http://www.ihi.org/knowledge/Pages/Tools/HowtoGuidePreventVAP.aspx.
  15. How-to Guide: Prevent Central Line-Associated Bloodstream Infections. Cambridge, MA: Institute for Healthcare Improvement; 2012. Available athttp://www.ihi.org/knowledge/Pages/Tools/HowtoGuide/PreventCentralLineAssociatedBloodstreamInfection.aspx
  16. Furuya EY, Dick A, Perencevich EN, et al. 2011 Central Line Bundle implementation in US intensive care units and impact on bloodstream infections. PLoS One. 2011 Jan 18;6(1): e15452.
  17. Un bundle regionale per la prevenzione della VAP in Terapia intensiva  Guida per i team locali. A cura di ARS Toscana Osservatorio Qualità ed Equità. Dicembre 2010 (vers. 1.0).
  18. Langley GL, Nolan KM, Nolan TW, Norman CL, Provost LP. The Improvement Guide: A Practical Approach to Enhancing Organizational Performance (2nd edition). San Francisco: Jossey-Bass Publishers; 2009.

 

Altri riferimenti

Aboelela SW, Stone PW, Larson EL. Effectiveness of bundled behavioural interventions to control healthcare-associated infections: a systematic review of the literature Journal of Hospital Infection (2007) 66 , 101 e 108
Kretzer EK, Larson EL. Behavioral interventions to improve infection control practices. Am J Infect Control 1998; 26:245–53.
Yokoe DS, et al. A compendium of strategies to prevent healthcare-associated infections in acute care hospitals, Infect Control Hospital Epidemiology 2008; 29 (Suppl 1): 12-21.
Jobke Wentzel, Nienke de Jong, Joyce Karreman and Lisette van Gemert-Pijnen. Implementation of MRSA Infection Prevention and Control Measures . What Works in Practice?  www.interchopen.com
Hawe et al. Reduction of ventilator-associated pneumonia: active versus passive guideline implementation. Intensive Care Medicine 2007, 35:1180-86
Bloos F, Muller S, Harz A, Gugel M, Gell D, Engerland K, Reinhart K, Marx G. Effects of staff training on the care of mechanically ventilated patients: a prospective cohort study. Br J Anesth 2009; 103 (2):232-237.

Diletta Guarducci – Azienda sanitaria 10 Firenze
Valentina Molese – Azienda USL 11 Empoli; ANMDO Toscana

 

Infermieri: novità dal tavolo sulla professione infermieristica

Tavolo tecnico scientifico della professione infermieristica in relazione alla nuova domanda di salute: quali sviluppi fino ad oggi.

Il primo riferimento all’evoluzione della professione infermieristica è al Dlgs 15/2016 che ha recepito le indicazioni europee indicando che l’infermiere è responsabile dell’assistenza generale e ha competenza di:

1. individuare autonomamente le cure infermieristiche necessarie utilizzando le conoscenze teoriche e cliniche attuali nonché di pianificare, organizzare e prestare le cure infermieristiche nel trattamento dei pazienti, sulla base delle conoscenze e delle abilità acquisite, in un’ottica di miglioramento della pratica professionale;

2. lavorare efficacemente con altri operatori del settore sanitario, anche per quanto concerne la partecipazione alla formazione pratica del personale sanitario sulla base delle conoscenze e delle abilità acquisite;

3. orientare individui, famiglie e gruppi verso stili di vita sani e l’autoterapia, sulla base delle conoscenze e delle abilità acquisite;

4. avviare autonomamente misure immediate per il mantenimento in vita e di intervenire in situazioni di crisi e catastrofi;

5. fornire autonomamente consigli, indicazioni e supporto alle persone bisognose di cure e alle loro figure di appoggio;

6. garantire autonomamente la qualità delle cure infermieristiche e di valutarle;

7. comunicare in modo esaustivo e professionale e di cooperare con gli esponenti di altre professioni del settore sanitario;

8. analizzare la qualità dell’assistenza in un’ottica di miglioramento della propria pratica professionale come infermiere responsabile dell’assistenza generale.

Queste anche le premesse del documento finale del Tavolo tecnico per la professione infermieristica, insediato al ministero della Salute a inizio estate e che ha concluso la sua prima fase di lavoro con l’elaborazione di un documento di sintesi inviato ufficialmente dal sottosegretario alla Salute Vito De Filippo alle direzioni generali del ministero competenti (Risorse umane, Programmazione sanitaria, Ricerca scientifica e Prevenzione) e al Gabinetto del ministro e che dopo il ministero sarà condiviso con le Regioni.

E in questo quadro, come ha anche sottolineato la Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi, è necessario un approccio più “solido” e “ambizioso” nella ridefinizione dei modelli organizzativi e assistenziali e, soprattutto, nell’innovazione e ridefinizione dell’assistenza primaria, ancora prevalentemente orientata a servizi “tradizionali” anziché “di iniziativa”, ossia impostati sulla logica “dell’andare verso il cittadino”, sulle reti multiprofessionali di presa in carico e di continuità assistenziale, ampliando l’assistenza nel domicilio, attivando gli ospedali di comunità, le case della salute e i servizi ambulatoriali di prossimità.

Anche le indicazioni e gli obiettivi contenuti nel Patto per la salute 2014-2016 prendono atto del contesto demografico ed epidemiologico e pongono specifica attenzione all’efficacia, all’appropriatezza, alla sostenibilità del Sistema e alla necessità di valorizzare, rafforzandolo, il patrimonio professionale operante nel Sistema stesso. E la legge 190/2015 – comma 566 – richiama a sua volta gli orientamenti del Patto per la salute e pone le basi per intervenire su ruoli, funzioni e modalità operative dei professionisti sanitari, sostenendo l’evoluzione delle loro competenze – anche attraverso percorsi di formazione complementare – e privilegiando i sistemi a rete e il lavoro in squadra.

Il documento propone di riprogettare o cambiare l’organizzazione sanitaria. Cosa che, soprattutto in un’ottica di scarsità di risorse, significa ricercare e trovare l’ equilibrio tra efficienza ed efficacia del sistema e la sua equità: l’equilibrio si ottiene definendo nuove regole organizzative e delineando attitudini professionali, competenze trasversali degli attori del sistema. Significa mettere in campo una “sanità di iniziativa”, come delinea il documento.

Confermati i quattro i nuovi ambiti per i professionisti infermieri proposti dall’Ipasvi, nel nuovo modello dei percorsi di cura integrati tra ospedale e territorio e tra territorio e ospedale, senza dimenticare, evitandolo, l’isolamento sociale che può essere causa di frequenti riospedalizzazioni: infermieristica di famiglia-comunità; assistenza infermieristica domiciliare; assistenza infermieristica ambulatoriale; ospedali di comunità (link).

«La presa in carico degli assistiti, territoriale e ospedaliera – spiega Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi – deve prevedere un modello che si caratterizzi per la capacità di porre il paziente al centro del percorso di cura, puntando all’integrazione e alla personalizzazione dell’assistenza. È, infatti, particolarmente funzionale allo sviluppo e all’utilizzo dei percorsi clinico assistenziali integrati, la traduzione locale delle linee guida nella pratica clinica, cosa che pare rispondere meglio non solo ai bisogni assistenziali di pazienti sempre più anziani e affetti da complesse polipatologie, ma anche alla necessaria integrazione multidisciplinare e multiprofessionale».

Il riorientamento dell’intera offerta assistenziale per garantire efficaci strategie preventive e pro-attive deve, secondo la presidente Ipasvi, realmente garantire la “continuità assistenziale”. «L’attivazione cioè – spiega – di percorsi di cura attraverso l’adozione di opportuni strumenti di raccordo e di professionalità appropriate, come ad esempio quella infermieristica, per rispondere ai nuovi bisogni. Anche nel recente Piano nazionale per la cronicità la professione infermieristica è indicata come la professione in grado di perseguire positivi risultati nell’esercizio della funzione di “care management” e quindi nella gestione della continuità assistenziale e del lavoro in rete.

L’organizzazione di un tale modello – prosegue Mangiacavalli – richiede l’attivazione di team che includano vari professionisti, ognuno con il proprio ruolo all’interno di un percorso integrato, in grado di prendere in carico il paziente. Secondo le esperienze regionali un sistema di questo tipo potrebbe anche garantire iniziative di prevenzione e promozione della salute e dei corretti stili di vita per incidere precocemente sui determinanti di salute, per ridurre sia l’incidenza delle malattie croniche, sia la progressione della malattia già esistente, per potenziare a livello territoriale la presa in carico delle dimissioni difficili, attraverso l’impegno di tutti i professionisti coinvolti».

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