Responsabilità penale: dall’autonomia professionale alla condanna per omicidio colposo.

INTRODUZIONE
Risponde di omicidio colposo, di cui all’art. 589 c.p., l’infermiere che non segnala al medico l’incompatibilità tra il farmaco prescritto al paziente e l’allergia da questi dichiarata, e che, infine, gli somministra il medesimo farmaco.

 Questi sono brevemente i fatti protagonisti del caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione penale, Sez. IV, con la sentenza n. 2192 del 16 gennaio 2015.

 Tuttavia, per poter comprendere a pieno il ragionamento seguito dagli Ermellini è bene procedere con attenzione alla disamina dei capi di imputazione contestati agli imputati.

La Procura della Repubblica iscriveva al Registro degli Indagati due infermieri in relazione alla “condotta colposa consistita nel cagionare il decesso del paziente, avvenuta a seguito della somministrazione allo stesso del farmaco Amplital, contenente amoxicillina, cui il paziente era allergico”.

In particolare, al primo, in qualità di infermiere professionale caposala in servizio presso il reparto, gli veniva contestata la condotta omissiva consistita, da un lato, nel mancato rilievo, per negligenza o imperizia, del contrasto tra la prescrizione medica del farmaco Amplital e l’allergia del paziente all’amoxicillina, e, dall’altro, nella mancata segnalazione di detto contrasto al personale medico.

Viceversa, al secondo imputato, in qualità di infermiere professionale in servizio presso la sala operatoria dell’ospedale, era stato contestato di aver imprudentemente somministrato l’Amplital al paziente nel corso della fase preoperatoria, causando il decesso a distanza di pochi secondi.

 IN DIRITTO

Tema centrale della pronuncia è la concreta sussistenza di specifiche posizioni di garanzia in capo ai due infermieri in relazione all’incolumità del paziente, inquadrabili come “situazioni fattuali normativamente qualificate, cui l’ordinamento riconnette l’obbligo di impedire l’evento”. Come sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, integra una di tali “situazioni”, ai sensi dell’art. 40, co. 2 c.p., la condotta di chi ha omesso di attivarsi – così disattendendo lo specifico obbligo – in quanto equiparata alla relativa condotta commissiva.

Tale argomentazione è da tempo sostenuta dai Giudici di legittimità, che, e pluribus in una pronuncia del 2011, affermavano che rientra nel proprium – non solo del sanitario, bensì anche – dell’infermiere quello di controllare il decorso della convalescenza del paziente ricoverato in reparto, in modo tale da sollecitare, in caso di dubbio, un tempestivo intervento del medico. In quella sede, aggiungeva, altresì, la Suprema Corte che nell’ipotesi opposta si finirebbe per mortificare le competenze professionali della suddetta figura, che, invece, svolge un compito cautelare essenziale nella salvaguardia della salute del paziente.

La sentenza in commento, dunque, si inserisce nel solco di quelle pronunce che attribuiscono una posizione di garanzia autonoma all’infermiere, quale espressione dell’obbligo costituzionalmente garantito, imposto dagli artt. 2 e 32 della Costituzione.

Pertanto, tale approdo sembra coerente con l’evoluzione della normativa di settore, di certo ben nota ai lettori, caratterizzata dal passaggio da una visione puramente ancillare della professione infermieristica al riconoscimento di una “autonomia professionale” nell’ambito delle attività dirette alla prevenzione, alla cura e alla salvaguardia del paziente.

 CONCLUSIONI

Tutto ciò premesso, i Giudici hanno ritenuto che i fatti come accaduti integrino la fattispecie prevista e punita dall’art. 589 c.p., in quanto colpevole omissione, da parte degli imputati, di precisi doveri giuridici incombenti sugli stessi.

Nello specifico, nella motivazione si legge: “in considerazione della qualità e del corrispondente spessore contenutistico della relativa attività professionale, non possa non ravvisarsi l’esistenza, in capo all’infermiere, di un preciso dovere di attendere all’attività di somministrazione dei farmaci in modo non meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi), occorrendo viceversa intenderne l’assolvimento secondo modalità coerenti a una forma di collaborazione con il personale medico orientata in termini critici; e tanto, non già al fine di sindacare l’operato del medico (segnatamente sotto il profilo dell’efficacia terapeutica dei farmaci prescritti), bensì allo scopo di richiamarne l’attenzione sugli errori percepiti (o comunque percepibili), ovvero al fine di condividerne gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita rispetto all’ipotesi soggetta a esame; da tali premesse derivando il ricorso di puntuali obblighi giuridici di attivazione e di sollecitazione volta a volta specificamente e obiettivamente determinabili in relazione a ciascun caso concreto.”

Rimane solo da appurare cosa pensino i medici di una tale pronuncia.

[Autori: Dott.ssa Clara di Bonaventura, Avv. Paolo Rendina]

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